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Temporary Manager e creazione d’impresa

Il mondo del Temporary Management può entrare a pieno titolo in quello della creazione d’impresa e delle startup, un settore che sta registrando un fermento positivo e che lascia ben sperare in termini di sviluppo, ma solo dotandosi di buone pratiche gestionali.

 

Nel 2011 sono nate 800 startup nel settore delle applicazioni Internet, con età media degli imprenditori di 32 anni. Nel 2012 si sono registrate 102.391 nuove imprese al femminile nel settore dell’agricoltura: un dato significativo per il settore.  

Tutto questo avviene in un momento in cui i ricavi delle 2035 maggiori  imprese italiane a carattere internazionale hanno subito un crollo del 13% nel mercato domestico ma hanno chiuso il 2012 con un aumento complessivo del 6% del loro giro d’affari, frutto di nuove iniziative (anche spin off) in termini di export, aspetto che rappresenta l’88% del loro intero volume d’affari. 

Da questi e molti altri segnali (es. la Legge n. 221/2012 sulle startup, la crescita di varie realtà per il supporto alla creazione d’impresa, una diversa consapevolezza da parte di molti giovani, ecc.) sembra che stia emergendo un fermento – magari scomposto – e un’iniziativa –  magari non sempre mirata - che il nostro Paese non avrebbe forse prodotto in tempi di mercato favorevole.

Ma quasi il 50% delle nuove imprese fallisce entro i primi cinque anni di vita, al ritmo di trentacinque al giorno. Oltre ai fallimenti crescono anche le domande di concordato, passate da 539 a 904 casi (+68%) nel 2012. In alcuni casi si tratta di un modo per prendere tempo, in molti altri è un modo per limitare gli esborsi di danaro per pagare i creditori.

Quali le ragioni della mortalità? I consumi in continuo calo, la pressione fiscale, la restrizione del credito, aziende fornitrici o clienti che non pagano.   Ma anche la sfera gestionale: non aver sufficientemente valutato il mercato nell’impostazione delle strategie e delle attività, non essere riusciti a cogliere l’opportunità dell’export, non aver adottato precisi criteri manageriali nella gestione, aver lasciato troppo spazio ai dissapori fra soci e familiari.

A questo si aggiunge un altro dato: il 67% delle aziende familiari non regge al passaggio da padre in figlio, e soltanto il 15% si sviluppa attraverso la terza generazione.  Una questione che impatta sulla perdita di 65.000 posti di lavoro ogni anno e che p riguarda gli imprenditori italiani con più di 60 anni, cioè il 60% delle imprese.

Le principali criticità sembrano riguardare l’esercizio della delega, la scarsa capacità di valutare e sviluppare attitudini, competenze e potenziale dei dipendenti, la tendenza a sottovalutare l’utilizzo di metodi e strumenti innovativi per la gestione, la resistenza al cambiamento, i profondi dissapori tra familiari e con le persone chiave dell’impresa.  Aspetti molto delicati, che si inquadrano in un contesto totalmente diverso da quello che l’imprenditore “uscente” ha conosciuto nei suoi primi anni di attività. Ad esempio, c’è di mezzo il passaggio da una società agricolo/industriale alla società della conoscenza diffusa nella Rete.

Da tutto ciò emerge il bisogno fondamentale di cultura e capacità imprenditoriali e manageriali.

Esaminiamo un dato: prendendo a campione la Lombardia, emerge che nel 2012 il 39% delle imprese è nato su iniziativa di ex dipendenti d’azienda o manager precari che non riescono a trovare un’occupazione stabile. 

Se è vero che in tempi di crisi necessità fa virtù e che le iniziative sono un fatto positivo (è in crescita il bilancio delle competenze richiesto dalle persone),  è anche vero che i neoimprenditori debbono compiere uno sforzo iniziale importante per capire se la loro è una vera business idea o una velleità, avere chiara la ragione per la quale il mercato dovrebbe scegliere i loro prodotti/servizi, conoscere gli “attrattori” di mercato, saper produrre un buon business plan, conoscere bene la struttura dei costi e le possibilità di ricavi del progetto imprenditoriale.

Debbono sapere che un conto è una “nuova impresa” e un altro è una startup, che per essere definita  “innovativa” deve avere alcune caratteristiche principali:

  • investire il 20% del maggior valore fra costo e produzione in ricerca e sviluppo;

  • avere un terzo dei dipendenti in possesso di un dottorato di ricerca e una laurea scientifica;

  • essere titolare di un brevetto;

  • non distribuire dividendi per i primi quattro anni di vita.

Debbono inoltre capire in quali mercati è opportuno delocalizzare e/o investire, essere consapevoli che dovranno orientarsi nell’intricato

universo della burocrazia italiana e dei finanziamenti, il cui accesso non è così impossibile come si crede, considerati gli innumerevoli canali disponibili.

Ciò è ancor più vero se si considerano le startup a carattere sociale, che godono di alcune forti esenzioni, superiori a quelle delle startup “ordinarie”.

Per il successo del finanziamento gioca un ruolo fondamentale un mix di un soggetto proponente credibile e affidabile, un mercato “certo” con prospettive di elevata redditività, caratteristiche di utilità sociale e di sostenibilità.

Essendo l’insieme di questi fattori un carico troppo pesante per un neoimprenditore, per i giovani entrano in gioco gli incubatori e i facilitatori d’impresa di cui è disseminato il nostro paese (solo quelli universitari sono 38, cui si aggiungono quelli istituzionali, a livello governativo e locale).

Esistono poi le figure di supporto (Business Angel, Advisor, Mentor, Coach, ecc.) e consulenti con precise specializzazioni (fundraising, predisposizione di business plan, area legale e assicurativa, area fiscale, area finanza, marketing and sales, export, cluster analysis, formazione, ecc.) che sono in grado di supportare – con diversi gradi di incidenza - l’imprenditore dal momento in cui emerge la business idea per tutto il periodo di avviamento dell’impresa (anche uno spin off), sia per gli aspetti industriali e societari, sia per quelli che riguardano il suo “essere imprenditore”.

Ma i costi della consulenza spaventano prima ancora di verificarne la congruità e sono poco conosciute le possibilità di collaborazioni (anche a success fee).  E’ così che l’imprenditore spesso preferisce il “fai da te”, magari supportato da un parente o un amico, e vuol fare il battitore libero.  Piuttosto che entrare in una rete, creare un’ATI, un consorzio o accettare un nuovo socio che lo aiuti nella gestione, spesso preferisce sbagliare da solo volando basso (“perché debbo mettermi con altri se posso fare da solo? Le società si fanno con persone in numero dispari e inferiore a tre!”).  Nel nostro paese l’individualismo, il “nanismo imprenditoriale” e la mentalità provinciale sono molto diffusi.  E così l’imprenditore si pone in una condizione di maggiore rischio.

La questione è teoricamente più delicata per le early stage, cioè quelle startup che nascono ex novo in un settore nuovo: non si conosce bene il mercato e il capitale, sia il proprio che quello altrui, è sostanzialmente tutto a rischio.  Ma l’opportunità è che per queste realtà avere una competenza specifica nel settore può far compiere un grande salto qualitativo, poiché in tre anni si può quotare l’azienda in borsa.

Il raggio potenziale di azione sarebbe ancor più ampio, volendo prendere in considerazione i Contamination Lab.  Questa formula comporta lo sviluppo di un territorio dove, all'interno di un comparto, nascano per contaminazione nuove aziende già collegate territorialmente.

Esistono poi i parchi scientifici, in cui entrano in campo istituti di ricerca e università che lavorano e sviluppano attività di studio dal punto di vista dell'innovazione e della creazione d'impresa.  

Ecco che, laddove si crei spazio per una collaborazione, per l’imprenditore (come pure per gli incubatori d’impresa, realtà in genere piuttosto strutturate), dotarsi di Temporary Manager è un’opportunità per il supporto in termini di valutazione della business idea, per gli aspetti organizzativi, l’acquisizione di know how, lo sviluppo di mercati.  Riprendendo quanto evidenziato da un’inchiesta presentata da Maurizio Quarta in questa rubrica, le PMI che hanno sperimentato il TM hanno espresso per la maggioranza valutazioni positive.

Per il Temporary Manager significa naturalmente ampliare il mercato e lo spettro delle sue attività, generalmente rivolte alle grandi imprese, e anche venire a contatto con interessanti potenzialità di investimento.

Per il settore delle PMI e gli incubatori d’impresa significa creare sinergie con il network dei Temporary Manager mettendo a fattor comune ambienti, studi, relazioni, know how, esperienze.  A tutto vantaggio del business e della comunità.

A questo punto varrebbe la pena di “istituzionalizzare” e pensare come mettere a sistema questo tipo di collaborazioni.  Forse i tempi sono maturi e gli spazi sembrano esserci.

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