LA FORMAZIONE E IL COACHING A SOSTEGNO DEI RUOLI MANAGERIALI
Il manager è chiamato a sfide crescenti che lo costringono a rivedere certezze, a intraprendere percorsi nuovi, modificare i propri comportamenti e talvolta a doversi superare. La formazione e il coaching sono una leva fondamentale per l’adeguamento e lo sviluppo delle sue competenze.
Gestire la complessità
Negli ultimi anni - in particolare dell’ultimo anno e mezzo - l’orizzonte culturale dei manager e degli imprenditori si è affollato di nuovi e spesso difficilmente comprensibili elementi, che hanno contribuito a sviluppare ulteriore turbolenza, complessità e rischiosità. Vediamone alcune variabili esterne e interne.
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L’unica certezza è l’incertezza: crisi, perdita e nuova acquisizione, rinnovamento profondo sono le vere costanti del momento attuale e ogni cambiamento importante è un fatto soprattutto emotivo e culturale, che costringe le persone a un grande dispendio di energia.
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Le nuove dinamiche di consumo, i nuovi comportamenti e valori che ridefiniscono il ruolo stesso dei consumatori hanno generato una condizione di domino del cliente e l’affermazione dei suoi diritti/bisogni: ciò costringe le imprese a lavorare su strategie di marketing e di CRM del tutto nuove.
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Il vantaggio competitivo per le imprese è costituito dall’accelerazione del processo decisionale e operativo, dal time to market, dall’innovazione di prodotto, di idee, dalla generazione di conoscenza, da soluzioni aperte e flessibili sotto il profilo strategico, organizzativo e gestionale, dalla massima efficacia e tempestitivà dei flussi di comunicazione. Risultati garantiti non tanto dalla velocizzazione, quanto piuttosto dall’accurato presidio di tutti i processi.
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Le nuove scelte strategiche comportano la ridefinizione da parte dell’organizzazione del suo compito primario, della sua identità, e un’organizzazione è forte se sa rispondere con certezza alle domande: “qual è oggi la nostra ragion d’essere” e “perché i clienti dovrebbero scegliere proprio noi”.
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Mantenere un visione forte dell’organizzazione e del mondo in divenire è vitale, ma bisogna anche avere coraggio e flessibilità per meglio adattarla agli stimoli e ai mutamenti del contesto, sapendo talvolta lavorare con talento sulle intuizioni e sull’improvvisazione.
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La questione assillante del contenimento dei costi comporta che si debba ottimizzare, e ciò significa che i tagli si debbono fare con coraggio e senza indugi eliminando gli sprechi, ma solo come estrema ratio eliminando le persone. Le decisioni sul downsizing stressano molto i manager e tutta la struttura, generano un calo della fiducia, della motivazione e della produttività, fanno sì che scompaiano dal capitale umano competenze che possono essere fondamentali per il futuro e la memoria dell’organizzazione ne è fortemente compromessa.
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La turbolenza del contesto genera incertezza, che a sua volta genera ansia, l’ansia genera comportamenti difensivi nelle persone e ciascuno si difende come sa e come può in relazione alla sua personalità, alla sua storia e al sistema di relazioni che lo circonda. Oggi, molto più che in passato, il mondo del lavoro espone i soggetti a crescenti fatiche personali.
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Diventa indispensabile dedicare molto più tempo a variabili sociali come il clima e la cultura, partendo dai bisogni dei singoli, con i loro meccanismi affettivi e relazionali, per poi lavorare sui rapporti interpersonali (ad esempio, il rapporto capo-collaboratore), sui gruppi e sull’intera popolazione aziendale.
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La leadership deve essere quanto più possibile condivisa, collettiva e trasformazionale. Sono definitivamente tramontati gli aspetti autoritari. Le persone, più consapevoli rispetto al passato, hanno bisogno di un leader capace di dare senso e significato a ciò che esse fanno, di sviluppare condivisione, autonomia, iniziativa ed empowerment tanto da trasformare quanto più possibile le persone (ciascuno in relazione alle loro possibilità) in nuovi leader. Il leader è garante di un clima costruttivo.
Il manager e il gap di competenze
Questi campi di riflessione sollecitano molto i manager sul piano emotivo, psicologico, mentale e organizzativo. Molti sono estremamente sotto pressione in virtù del crescente carico di stress, responsabilità, incombenza dei rischi, incognite del futuro. Ma le molle dell’ambizione, del potere, del beneficio economico, del riconoscimento sociale, della visibilità, della possibilità di darsi continue sfide, nonostante il bisogno di compensazione (si moltiplicano le associazioni del termine “manager” con “wellness”, “zen”, ecc.), se non addirittura di “mollare tutto e andare a vivere all’estero”, ancora compensano questi sacrifici.
Alla base della scala dei bisogni del manager c’è quello di vivere la propria professione solo per essere retribuiti (il lavoro come attività strumentale all’incremento di reddito) e, successivamente, quello di fare carriera (l’attività come luogo per raggiungere traguardi, ottenere pubblici riconoscimenti della propria competenza, puntare verso obiettivi sempre più ambiziosi). Sono ambedue sostanzialmente approcci all’organizzazione e al proprio lavoro personalistici e autoriferiti.
Il livello di aspirazione più evoluto (quello dove si collocano i grandi leader, per intenderci) è invece rappresentato dalla spinta ad adempiere una missione (il lavoro come contributo positivo alle condizioni di vita della comunità di riferimento). In questo senso, l’autorealizzazione è correlata alla libertà di poter scegliere cosa fare per gli altri prima ancora che per sé, all’idea di generare benessere nel lavoro e garantirlo per il futuro attraverso una visione lucida e obiettivi molto chiari. Diciamo pure che si tratta di un lusso per pochi.
Queste tematiche stanno costringendo da molti anni professionisti dell’head hunting a un’attenta riflessione, poiché hanno sperimentato negli anni precedenti come un manager centrato su se stesso e sulla carriera possa a volte recare danni all’organizzazione per la quale lavora.
Due-tre anni molto centrati sugli obiettivi prendendo tutto quello che si può, senza approfondire le relazioni né lasciare lo spazio e il tempo per far sedimentare le soluzioni adottate verificandone gli effetti, poi via verso un’altra organizzazione, in un incessante rincorrere sempre più ambiziosi traguardi. A volte, coloro che li sostituiscono saranno impegnati a ricucire un tessuto di relazioni parzialmente compromesso da questi manager e a risolvere problemi tecnico/organizzativi da loro generati, impegnati com’erano più a guadagnare visibilità personale piuttosto che a gestire con buon senso (e direi anche con pazienza) l’organizzazione.
Quel che invece accade più frequentemente è che, all’evidente desiderio (inarrestabile per sua definizione) di un crescente benessere economico, si affianchino il desiderio di sentirsi competenti e di essere riconosciuti come tali, di sviluppare significative relazioni interpersonali, di avere potere, prestigio e un forte legame di appartenenza al proprio network.
Talvolta però l’ambizione può spingere ad accettare incarichi senza avere prima soppesato i rischi della propria inadeguatezza al nuovo ruolo: essa richiede necessariamente un periodo di apprendimento che, nel timore che la propria immagine ne venga sminuita e magari forti del sistema di relazioni di cui si è circondati, non si vuole affrontare,. Il risultato è quello di un insieme di competenze piuttosto fragili, che vengono “ben vendute” piuttosto che “ben elaborate” e “ben spese”, a danno evidentemente della propria solidità e, soprattutto, dell’organizzazione.
In secondo luogo, lo scorrere del tempo non sempre è cumulo di abilità e competenze, perché può subentrare l'assuefazione e un certo “impigrimento”. Il manager tende allora a ripetersi, sia nelle idee, sia nelle azioni e non genera più innovazione, non si entusiasma più.
Inoltre, una volta raggiunto un soddisfacente livello di carriera, può subentrare una sorta di resistenza al cambiamento (“se cambio è per avere qualcosa di meglio, altrimenti resto dove sono”) e così, inconsapevolmente, il manager fa in modo che nella sua vita professionale i grandi cambiamenti non si verifichino più, rischiando un irrigidimento delle sue competenze quanto a saperi, technicalities, approcci, metodologie e anche comportamenti.
Una delle ragioni è che la visione che egli ha sempre coltivato circa il suo percorso di carriera “arriva fino a quel punto” e quindi, esaurita la visione, le azioni conseguenti sono prive di creatività, di guida strategica e di spinta motivazionale.
Un’altra ragione è che le paure, parzialmente inconsce, abbiano preso il sopravvento sul desiderio di rimettersi in gioco, ed ecco allora che l’individuo giustifica la propria mancanza di iniziativa con alibi di varia natura (“il mercato ora non offre niente di interessante”, “questo è un momento di mercato in cui è meglio stare dove si è”, “in fondo qui non mi trovo male”….)
E ancora, alcuni manager restano imbrigliati nelle logiche di potere, che finiscono con prevalere rispetto alla curiosità, al gusto di affrontare sempre nuove sfide con se stesso, alla spinta a far crescere le persone e l’organizzazione. Accade così che coloro per i quali il potere è la spinta motivazionale nettamente più forte, ad esso sacrificano l’innovazione e la voglia di mettersi in gioco, sviluppano una leadership direttiva, autocentrata e conservativa, sono indisponibili a condividere e trasmettere ciò che sanno, sviluppano comportamenti a tratti narcisistici, autoritari, manipolativi, incoerenti. Chi ottiene il potere ha in genere lavorato a lungo e ha pagato prezzi alti per ottenerlo e lo difende duramente. Inutile dire che i loro collaboratori sviluppano a loro volta un malessere, un disagio individuale e comportamenti difensivi di varia natura, che si trasformano rapidamente in disagio organizzativo. Infine, un ottimo venditore può anche diventare un mediocre direttore commerciale, un ottimo CFO un mediocre direttore generale, e così via.
I percorsi di carriera vanno disegnati non solo sui risultati conseguiti o sulle relazioni di cui si dispone, ma anche e soprattutto sulla valutazione del potenziale esprimibile dalle persone, che offre il quadro della persona in divenire. Nei ruoli apicali dell’organizzazione hanno molto peso e influenza fattori come la visione strategica, le relazioni “politiche”, l’imprenditività, la capacità di motivare le persone, la stabilità emotiva, competenze che un bravissimo performer sotto il profilo tecnico può non avere.
La formazione e il coaching come leve per lo sviluppo
Questi campi di riflessione sollecitano molto i manager sul piano emotivo, psicologico, mentale e organizzativo. Molti sono estremamente sotto pressione in virtù del crescente carico di stress, responsabilità, incombenza dei rischi, incognite del futuro. Ma le molle dell’ambizione, del potere, del beneficio economico, del riconoscimento sociale, della visibilità, della possibilità di darsi continue sfide, nonostante il bisogno di compensazione (si moltiplicano le associazioni del termine “manager” con “wellness”, “zen”, ecc.), se non addirittura di “mollare tutto e andare a vivere all’estero”, ancora compensano questi sacrifici.
Alla base della scala dei bisogni del manager c’è quello di vivere la propria professione solo per essere retribuiti (il lavoro come attività strumentale all’incremento di reddito) e, successivamente, quello di fare carriera (l’attività come luogo per raggiungere traguardi, ottenere pubblici riconoscimenti della propria competenza, puntare verso obiettivi sempre più ambiziosi). Sono ambedue sostanzialmente approcci all’organizzazione e al proprio lavoro personalistici e autoriferiti.
Il livello di aspirazione più evoluto (quello dove si collocano i grandi leader, per intenderci) è invece rappresentato dalla spinta ad adempiere una missione (il lavoro come contributo positivo alle condizioni di vita della comunità di riferimento). In questo senso, l’autorealizzazione è correlata alla libertà di poter scegliere cosa fare per gli altri prima ancora che per sé, all’idea di generare benessere nel lavoro e garantirlo per il futuro attraverso una visione lucida e obiettivi molto chiari. Diciamo pure che si tratta di un lusso per pochi. Queste tematiche stanno costringendo da molti anni professionisti dell’head hunting a un’attenta riflessione, poiché hanno sperimentato negli anni precedenti come un manager centrato su se stesso e sulla carriera possa a volte recare danni all’organizzazione per la quale lavora.
Due-tre anni molto centrati sugli obiettivi prendendo tutto quello che si può, senza approfondire le relazioni né lasciare lo spazio e il tempo per far sedimentare le soluzioni adottate verificandone gli effetti, poi via verso un’altra organizzazione, in un incessante rincorrere sempre più ambiziosi traguardi. A volte, coloro che li sostituiscono saranno impegnati a ricucire un tessuto di relazioni parzialmente compromesso da questi manager e a risolvere problemi tecnico/organizzativi da loro generati, impegnati com’erano più a guadagnare visibilità personale piuttosto che a gestire con buon senso (e direi anche con pazienza) l’organizzazione.
Quel che invece accade più frequentemente è che, all’evidente desiderio (inarrestabile per sua definizione) di un crescente benessere economico, si affianchino il desiderio di sentirsi competenti e di essere riconosciuti come tali, di sviluppare significative relazioni interpersonali, di avere potere, prestigio e un forte legame di appartenenza al proprio network.
Talvolta però l’ambizione può spingere ad accettare incarichi senza avere prima soppesato i rischi della propria inadeguatezza al nuovo ruolo: essa richiede necessariamente un periodo di apprendimento che, nel timore che la propria immagine ne venga sminuita e magari forti del sistema di relazioni di cui si è circondati, non si vuole affrontare,. Il risultato è quello di un insieme di competenze piuttosto fragili, che vengono “ben vendute” piuttosto che “ben elaborate” e “ben spese”, a danno evidentemente della propria solidità e, soprattutto, dell’organizzazione.
In secondo luogo, lo scorrere del tempo non sempre è cumulo di abilità e competenze, perché può subentrare l'assuefazione e un certo “impigrimento”. Il manager tende allora a ripetersi, sia nelle idee, sia nelle azioni e non genera più innovazione, non si entusiasma più.
Inoltre, una volta raggiunto un soddisfacente livello di carriera, può subentrare una sorta di resistenza al cambiamento (“se cambio è per avere qualcosa di meglio, altrimenti resto dove sono”) e così, inconsapevolmente, il manager fa in modo che nella sua vita professionale i grandi cambiamenti non si verifichino più, rischiando un irrigidimento delle sue competenze quanto a saperi, technicalities, approcci, metodologie e anche comportamenti.
Una delle ragioni è che la visione che egli ha sempre coltivato circa il suo percorso di carriera “arriva fino a quel punto” e quindi, esaurita la visione, le azioni conseguenti sono prive di creatività, di guida strategica e di spinta motivazionale.
Un’altra ragione è che le paure, parzialmente inconsce, abbiano preso il sopravvento sul desiderio di rimettersi in gioco, ed ecco allora che l’individuo giustifica la propria mancanza di iniziativa con alibi di varia natura (“il mercato ora non offre niente di interessante”, “questo è un momento di mercato in cui è meglio stare dove si è”, “in fondo qui non mi trovo male”….)
E ancora, alcuni manager restano imbrigliati nelle logiche di potere, che finiscono con prevalere rispetto alla curiosità, al gusto di affrontare sempre nuove sfide con se stesso, alla spinta a far crescere le persone e l’organizzazione. Accade così che coloro per i quali il potere è la spinta motivazionale nettamente più forte, ad esso sacrificano l’innovazione e la voglia di mettersi in gioco, sviluppano una leadership direttiva, autocentrata e conservativa, sono indisponibili a condividere e trasmettere ciò che sanno, sviluppano comportamenti a tratti narcisistici, autoritari, manipolativi, incoerenti. Chi ottiene il potere ha in genere lavorato a lungo e ha pagato prezzi alti per ottenerlo e lo difende duramente. Inutile dire che i loro collaboratori sviluppano a loro volta un malessere, un disagio individuale e comportamenti difensivi di varia natura, che si trasformano rapidamente in disagio organizzativo.
Infine, un ottimo venditore può anche diventare un mediocre direttore commerciale, un ottimo CFO un mediocre direttore generale, e così via. I percorsi di carriera vanno disegnati non solo sui risultati conseguiti o sulle relazioni di cui si dispone, ma anche e soprattutto sulla valutazione del potenziale esprimibile dalle persone, che offre il quadro della persona in divenire. Nei ruoli apicali dell’organizzazione hanno molto peso e influenza fattori come la visione strategica, le relazioni “politiche”, l’imprenditività, la capacità di motivare le persone, la stabilità emotiva, competenze che un bravissimo performer sotto il profilo tecnico può non avere.
La formazione e il coaching come leve per lo sviluppo
A fronte di queste premesse, ai manager occorrono oggi competenze manageriali e “trasversali” più sofisticate e più solide che in passato, una capacità di uscire dagli schemi e dalla propria “area di comfort” che li renderà più esposti a rischi e incertezze ma anche più brillanti e proattivi nel catturare opportunità e navigare nei cambiamenti. Si tratta di sviluppare competenze manageriali/comportamentali funzionali per sostenere non solo il “compito“ ma anche una profonda - e in parte nuova - consapevolezza dell’operare quotidiano per la realizzazione dei risultati. Soprattutto, per favorire autonomia, flessibilità e integrazione al comportamento organizzativo delle persone, laddove, prima ancora che il “sapere” e il “saper fare”, è importante il “saper far fare”. Si tratta di saper comprendere e interpretare l’evoluzione organizzativa del contesto, il rapporto ambiente-impresa, i nuovi contenuti del ruolo manageriale e le competenze oggi divenute critiche.
Per tutto questo non è solo essenziale gestire i processi decisionali e il proprio ruolo con capacità di analisi e sintesi, impostazione corretta delle variabili critiche, attenzione ai processi, ai metodi e ai sistemi di programmazione, coordinamento e controllo, alla risoluzione dei problemi, ai meccanismi operativi, alla gestione e allo sviluppo delle risorse umane.
Occorre anche prendere consapevolezza del fatto che il cambiamento non può essere gestito efficacemente se non viene anticipato e sostenuto da un pensiero strategico, che la creatività è un patrimonio presente nel soggetto e va semplicemente fatto emergere, che la strada della leadership è ogni volta nuova, che il potere, troppo spesso agito e interpretato come “potere sugli altri”, deve essere elaborato in “potere per gli altri”.
E’ importante considerare che le relazioni sono vantaggiose quando sono centrate sull’ascolto attivo e sul feedback, che i conflitti sono fisiologici in qualsiasi organizzazione e che lo stress è in aumento, anche nelle “great place to work”, e questi fenomeni vanno affrontati con tempestività, intelligenza, sensibilità, equilibrio, cercando di trasformarli positivamente in patrimonio dell’organizzazione integrando le diversità.
La formazione si configura come un sistema fondamentale all’interno delle politiche di gestione delle risorse umane e ha la finalità di creare una sempre più ampia partecipazione e corresponsabilizzazione alle scelte che incidono sull’identità, sulle core competences, sul ruolo e sull’azione professionale delle persone, sugli obiettivi di business.
La formazione e il coaching sono strumenti che consentono di intervenire sui gap di competenze, tanto nell’area tecnico-professionale quanto in quella della personalità, nell’area cognitiva, relazionale, commerciale e organizzativa, tanto da costituire strumenti molto funzionali ad accompagnare le persone verso ruoli sempre più allargati e culturalmente ricchi, agiti con consapevolezza, autonomia, flessibilità e orientamento al risultato.
Perché tutto questo si traduca in progetti di tipo sistemico (non quindi di tipo “spot”), incisivi, efficaci e coerenti, è essenziale che il top management sia sensibile ai temi della formazione. Ho avuto in diversi casi questo vantaggio e questo piacere. Ma spesso ricorrono affermazioni del tipo:“Abbiamo tempi brucianti per raggiungere gli obiettivi, non possiamo distogliere le risorse e destinarle a cose meno importanti come la formazione”. Già. Ma se le risorse non vengono motivate e coinvolte, sarà molto più difficile chiedere loro di raggiungere obiettivi ambiziosi, e non solo oggi o tra sei mesi, ma anche tra uno, tre, cinque anni. “In questo momento non possiamo spendere per la formazione, abbiamo altre priorità”. Provengo dall’impresa e so bene di cosa si parla, ma la formazione è un investimento, non un costo, e se si pensa sempre di navigare a vista e non assumersi la responsabilità di pensare in un’ottica di lungo periodo non si garantisce all’organizzazione un futuro credibile. Fa riflettere il fatto che nel Nord Europa, negli Stati Uniti, in Cina e in Giappone la formazione sia molto più diffusa, considerata e rispettata di quanto lo sia in Italia.
L’organizzazione è fatta di persone e le persone hanno bisogno di conoscere le ragioni per cui ciò che stanno facendo è sensato, hanno bisogno di essere sostenute e di sentirsi adeguate alle sfide che debbono sostenere. Le persone hanno un’energia mutevole, che è intimamente collegata agli aspetti affettivi (i cui riflessi sono ad esempio il senso di appartenenza, l’entusiasmo nel lavoro, il bisogno di gratificazione – psicologica prima ancora che economica - da parte del vertice e del capo, il senso di utilità del proprio operare, la ricerca di relazioni soddisfacenti con i colleghi, ecc.).
L’energia è anche collegata ai successi conseguiti (i risultati raggiunti a livello individuale, di gruppo e organizzativo) e alla consapevolezza della propria autoefficacia (la convinzione di essere all’altezza degli obiettivi che ci si prefigge indipendentemente dal contesto più o meno favorevole). Inoltre, le persone hanno un bagaglio di informazioni e una consapevolezza del contesto maggiori che in passato.
Per tutte queste ragioni, gli interventi che oggi hanno senso e utilità concreta sono di tipo esperienziale con un approccio action learning, che comporta la distanza da ciò che è predeterminato e fondato sull’insegnamento da parte di un docente (“si fa così”), mentre ha un saldo legame con la realtà, con la lettura degli eventi e con il vissuto concreto delle persone che, facilitate dal formatore, debbono essere le protagoniste degli interventi formativi (“in quel caso ho fatto così; come posso fare meglio”).
Questo approccio consente alle persone di aprirsi all’esperienza, di fare gruppo e integrarsi, di immergersi nella riflessione, di sollecitare non solo contenuti ma anche significati, di interpretare i propri comportamenti e la realtà, di raccontare casi concreti, di scambiare informazioni con i colleghi, di lavorare sodo su se stessi e su progetti aziendali, di mettersi in gioco e divertirsi imparando.
La formazione è anche uno strumento di comunicazione interna e di integrazione: le persone oggi si disperdono sempre più all’interno dell’organizzazione vivendo sempre più, a tutti i livelli, un senso di isolamento e separazione (“con il vertice aziendale comunichiamo pochissimo”, “sappiamo quello che dobbiamo fare ma non sappiamo il perché”, “la mano destra non sa quello che fa la sinistra”, “fra i responsabili delle varie funzioni non c’è sinergia”, “parliamo solo fra colleghi della stessa Direzione”, “l’Azienda dovrebbe promuovere più momenti d’incontro perché non ci conosciamo”).
I percorsi di coaching sono interventi ancora più incisivi, poiché fanno leva sul fatto che le persone hanno in sé tutta la conoscenza potenziale per raggiungere gli obiettivi e questa conoscenza, in parte sommersa, va facilitata, facendo in modo che la persona si faccia le domande giuste e si dia gli obiettivi giusti. Nella mia esperienza ho visto spesso una modifica sostanziale dei comportamenti dei manager a fronte di un percorso di coaching.
La formazione, il coaching e gli altri interventi di sviluppo, come ad esempio la valutazione del potenziale, sono un messaggio preciso da parte dell’organizzazione alle sue persone: “stiamo investendo su di voi perché le persone sono il nostro patrimonio più importante e ci attendono sfide importanti”. Indirettamente, sono anche strumenti di customer retention: gli alti potenziali e le risorse che hanno più mercato valutano di restare anche perché li percepiscono come un valore aggiunto per il proprio bagaglio culturale e per il proprio curriculum professionale.
Infine, la formazione e il coaching debbono poter garantire alle persone indipendenza, possibilità di autosviluppo e benessere. Quest’ultimo elemento - insieme al raggiungimento collettivo e condiviso degli obiettivi di business – sarà sempre più il grande risultato che un’organizzazione di successo e i suoi manager dovranno assegnare, fra molte difficoltà, al presente e al futuro.