FORME DEL CAMBIAMENTO E RIFLESSI SULLA FORMAZIONE
LA CRISI DELLA LEADERSHIP AUTORITARIA E IL BISOGNO DI ESTETICA
I segnali che si stanno palesando sotto i nostri occhi ci portano ad affermare che la nostra società sta evolvendo nella direzione del “femminile”. Lo sviluppo di una società richiede certamente un saldo impianto etico. Ma l’idea di etica rimanda a concetti come "valori", "principi", "norme", che sono i cardini di una leadership rigida, autoritaria e caratterizzata dalla dimensione del passato. In questo senso, il "dovere" è basato “sullo stretto legame dell’individuo alle norme vigenti, che vanno rispettate diligentemente e sono spesso alimentate dai sensi di colpa” (Spaltro, 2003).
Ci sembra di poter dire che quest’idea sia oggi messa in crisi da un sistema sociale che, invece che obbedire (come accadeva più tipicamente in passato) ciecamente all’autorità, tenda a ricercare consapevolmente la propria autonomia, divenendo così sempre più slegato dai vari contesti e "democratico", non tanto nella sua proclamazione di intenti, quanto piuttosto nei fatti.
Ciò rimanda al più evoluto concetto di estetica, come forza positiva dell’individuo, che tende a ricercare il proprio benessere in armonia con il benessere dell’altro, dunque del contesto in cui vive e lavora. Mentre l’etica è dipendenza, attaccamento al passato, l’estetica è libertà, senso della collettività, creatività, proiezione verso il futuro, possibilità di vero cambiamento.
Con questo non vogliamo dire che l’uomo nutra oggi un disagio inferiore al passato grazie ad una maggiore presenza di estetica (il contesto è in realtà sempre più pericoloso, complesso e difficile da decodificare), quanto piuttosto che sperimenta maggiori difficoltà nell’adattarsi all’autoritarismo.
I leader sono tali solo in quanto riconosciuti dagli altri, che in essi vedono una spiccata capacità di influire positivamente sui comportamenti e sulle decisioni delle persone. I leader naturali creano benessere e senso di leggerezza. Prima o poi la società, demotivata e mortificata dalle punizioni, rifiuta i "capi autoritari" e autocentrati. L'autoritarismo (un tratto distintivo dei partiti, dei capi delle istituzioni e delle imprese e del “maschile” in genere) costa una grande fatica a chi lo esercita e altrettanta fatica a chi è costretto a subirlo. La società punitiva è destinata all’implosione e all’autodistruzione. Ne consegue che le persone, per salvarsi, cerchino prima o poi altrove dei modelli di riferimento e delle nuove strade da percorrere, alla ricerca, a volte affannosa, contraddittoria e disordinata, del proprio benessere.
L’individuo oscilli tra (Watzlavick, 1984) e ha la tendenza ad allontanarsi dalla libertà e farsi fagocitare dai sistemi basati sul dominio, totalitari o autoritari che siano (la libertà, sostiene Erich Fromm, è una responsabilità che molti di noi non sono pronti ad accettare).
Si tratta di un fenomeno culturale e quindi, in quanto tale, lento, spontaneo e indipendente dal volere di taluni personaggi-guida, siano essi di tipo politico, istituzionale o aziendale.
La crisi del Welfare State e dei finanziamenti pubblici, l'impressionante declino economico del nostro sistema-Paese, l’aumento della povertà, aggiungono criticità all'impianto finora costruito, che sembra pieno di "rami secchi" e "buchi neri".
Nella vita di tutti i giorni, questo si riflette ovviamente nei comportamenti quotidiani delle persone, che reagiscono al contesto cercando di individuare il senso della loro esistenza: il nucleo primario della comunità, cioè quello famigliare, con le pesanti evoluzioni che sta subendo (derivanti soprattutto dal cambiamento del ruolo sociale della donna da “madre e moglie” a un’identità dilatata verso ill sociale e al professionale), manifesta segnali a tratti inquietanti, che evidenziano ruoli sempre più indipendenti: siamo una donna, un uomo, una bambina, prima ancora che "una famiglia"; i bambini sono più autonomi di un tempo (perché carichi di stimoli, e dunque più intelligenti e inquieti) nella valutazione di ciò che è "bello" o è "brutto", che "piace" o che non "piace", ciò che "vale la pena" o no: sono insomma più decisionisti; gli studenti, frastornati dalle troppe informazioni e dall'ansia di un futuro sempre più incerto, tentano di trovare il proprio percorso cercando i “propri” punti di riferimento e dove essi stessi ritengono che esistano (li individuano nei centri di orientamento, oppure negli psicologi del lavoro, nella rete internet, nei viaggi e negli scambi internazionali, ecc.).
La leadership autoritaria, che cerca di manifestarsi in tutte le forme, è dunque in crisi. I comportamenti direttivi dei leader generano comportamenti passivi nelle persone. Siamo convinti che i capi abbiano i collaboratori che si meritano. Ma le persone non vogliono più essere passive, pur sapendo, al tempo stesso, che la maggior parte di esse non è dotata del grado di autonomia psicologica necessario per essere "attive"; hanno bisogno di essere dirette e fanno naturalmente fatica a contribuire a costruire con gli altri una "leadership diffusa", dove tutti, in diversa misura e condizione, possano essere veramente responsabili, autenticamente propositivi.
Ma negli Individui c'è un bisogno diffuso di bellezza, di armonia, di visione di insieme, di solidarietà, di libertà creativa. Il bisogno di nuovo è innanzitutto una dimensione soggettiva che poi, solo se confrontata con gli altri, può diventare collettiva. Tutti sono alla ricerca di benessere, di armonia all'interno del sé e con il proprio contesto, oltre che di sicurezze individuali e sociali, che nell'attuale società, troppo carica di conflittualità, fanno fatica ad emergere.
Tant’è che anche la bellezza è “l’abbacinante realtà della nostra e dell’altrui potenzialità, del nostro progetto interno, così lontano dal vivere “medio”, rinunciatario e al di sotto delle potenzialità interne realizzative (…), l’inevitabile confronto e bilancio con le capacità interne induce nel soggetto numerose ansie (…) e il fascino che suscita, attraente e spaventoso, dà insieme gioia e panico (…) una chiamata che ci induce alla diserzione quanto più la sentiamo trascinante (Pagliarani, 1984).
Le categorie svantaggiate sono poste al centro dell'attenzione come segmento di una popolazione che, nella maggioranza dei casi, non si vuole considerare più solo un costo per la società, ma come un'opportunità di impiego per lavori socialmente utili o di lavori conciliabili con i loro problemi. D'altronde, il nostro sistema oscilla tra un'attenzione crescente a queste categorie e l'impossibilità di far fronte all'assistenzialismo tout court per ragioni soprattutto economiche. Le persone espulse (con il "cinismo" che domina inevitabilmente il sistema economico attuale) dal mondo del lavoro stanno creando una massa di popolazione sempre più consistente che non si vuole sentire finita, ma spera in un'occupazione, anche in settori definiti "innovativi". Di fatto, ci sono "vecchi" mestieri che stanno morendo e "nuove" professioni che stanno emergendo, e che in taluni casi ancora non trovano ancora riscontro "economico" nel sistema lavorativo.
Di fatto, le imprese private privilegiano i giovani, che però fanno fatica ad inserirsi, ed espellono invece le persone mature, più resistenti al cambiamento, che sono però detentrici di esperienza e memoria storica, che di conseguenza è a rischio di cancellazione. Le tecnologie informatiche (oggetto di crescente attenzione da parte del governo per la questione della digitalizzazione e dell'informatizzazione della società), prezioso strumento per l'uomo, rischiano di sovrastare la sua capacità di apprendimento, costringendolo ad una incessante rincorsa del tempo, sempre più compresso.
E’ significativo che l’attenzione di molti studiosi sia rivolta oggi alle organizzazioni non profit e di volontariato in genere che, proprio perché non assillate dall’ansia del profitto, vedono le persone dare il meglio di sé, garantendo a volte dei risultati sorprendenti. La loro forza è anche quella di fare un mestiere “sinceramente” al servizio degli altri.
“Sta emergendo un nuovo paradigma: il paradigma della partnership. In questo paradigma (…) le donne, gli uomini e la natura sono collegati e non già gerarchizzati, e la forza guida non è il tentativo di dominare e di esercitare il potere sugli altri, bensì lo sforzo di creare un mondo migliore per sé e per gli altri (…) La differenza fondamentale è tra la competizione basata sulla paura e la competizione basata sul gioco. La creatività e l’apprendimento sono possibili soltanto senza la paura” (Montuori, Conti, 1993).
QUALE NUOVO SISTEMA EDUCATIVO
Il sistema educativo (scuola, università, ecc.) sta rivelando, al di là della mancanza di fondi, la sua inadeguatezza a fronteggiare bisogni crescenti di un’istruzione più evoluta, dove spesso gli studenti decidono di integrare il loro corso di studi con l’aiuto di enti di varia natura per compensare le lacune del sistema e per garantirsi una formazione di maggiore spessore, più efficace.
Nei programmi degli organi centrali della comunità mondiale si pone l'enfasi nei confronti dei beni culturali come capitale già strutturato, con connotazioni fortemente identitarie per le persone, e tra i pochi volani in grado di sorreggere e sviluppare l'economia dei prossimi anni, puntando sull'arte (pensiamo a quella contemporanea) come derivato di una dimensione soggettiva, autonoma, creativa, capace di intuire il futuro e di guidare verso il "nuovo", rompendo schemi predefiniti e costringendo positivamente la persona a ripensarsi continuamente.
Come sottolinea Gregory Bateson, “l’arte è un aspetto della grazia da parte dell’uomo: la sua estasi a volte, quando in parte riesce, la sua rabbia e agonia, quando a volte fallisce” (1978), sottolineando come l’arte rappresenti la forma più sublime dell’espressione umana, in grado di rompere gli schemi e di fornire chiavi di lettura del contesto forse altrimenti impensabili.
C'è una tendenza crescente a sviluppare "imprenditorialità diffusa" (di cui le leggi sull'imprenditoria femminile e giovanile sono l'evidente testimonianza) dove le persone si assumono i rischi derivanti da una propria idea e dal fare impresa in modo più "individuale", che deriva anche dalla disillusione che il Governo, lo Stato e chissà chi altro ancora possa farsi carico del loro destino.
Anche lo scottante problema delle pensioni, con il proliferare delle "pensioni integrative", è un'evidente testimonianza di questa sfiducia e solitudine decisionale delle persone. I consumatori "traditi" dalle marche e dalla finanza hanno avviato un irreversibile processo che parte dal basso (e come tale autentico) che si manifesta nei vari movimenti, sempre più consapevoli del loro potere, a difesa dei consumatori. I professionisti di ogni genere rincorrono con ansia l'informazione, facendo fatica a filtrarla e a selezionarla, ma avvertendo un imprescindibile bisogno individuale di continua innovazione, percependo che, altrimenti, il rischio è quello di essere espulsi dal mercato.
Stiamo inevitabilmente evolvendo verso una società multi-razziale e internazionale che, in mezzo ai mille, delicatissimi problemi che questo può comportare, sta chiedendo esplicitamente di accogliere le istanze di tutti, del "diverso" da vivere non come un nemico ma come una grande opportunità di confronto e di arricchimento. Gli autoritarismi religiosi, i fanatismi e i pregiudizi sociali costituiscono delle micidiali barriere a tutto questo e degli alibi incontrollabili per eludere i nostri veri problemi, le nostre vere responsabilità, che sono quelle di costruire un futuro migliore per tutti, facendo tutti i giorni qualcosa di concreto e di misurabile.
L'altro non è una minaccia, ma bensì la grande opportunità della nostra esistenza. L'idea che si sta implicitamente affermando non è certo quella fondata sul "o io o te", ma sull' "io e te". Ne consegue che l'"io" viene inesorabilmente sostituito dal "noi".
Inoltre, il nostro sistema sociale è sempre più ampio. Le interconnessioni tra paesi, aree geopolitiche, settori merceologici sono sempre maggiori, e se si altera un componente del sistema, si altera il sistema intero. Il concetto di interazione dinamica fra le parti che lo contraddistingue rappresenta un sistema di conoscenza più adatto alle mutate condizioni socio-economiche. Senza la cooperazione con l’altro si muore lentamente. Il feed-back è alla radice del pensiero sistemico, che evidenzia come non siamo soli nel tentativo di creare la nostra propria storia, siamo invece parte di molti sistemi più ampi e di molti reticoli di connessioni a tutti i livelli, dall’io alla comunità all’ambiente.
Anche le alleanze tra persone e tra organizzazioni, in questo senso vedono modificare il loro significato: chi è nostro competitor oggi potrebbe essere nostro partner domani. Questo approccio sta comportando lo sviluppo del marketing relazionale, rafforzato dalle potenzialità della Rete, che costituisce la prova del superamento delle logiche del marketing tradizionale, nella direzione del continuo modificarsi dello stesso concetto di “partner” e di alleanza, accentuando di fatto le zone sempre più indistinte del nostro sistema economico. A livello individuale, ciò comporta la necessità di convivere con l’incertezza, di sviluppare intelligenza sociale, flessibilità, capacità di ascolto, tolleranza per l’ambiguità e capacità di autorinnovamento.
L’EVOLUZIONE DELLA SOCIETA’ VERSO IL MODELLO FEMMINILE
La donna è da sempre portatrice di questi valori. I processi di apprendimento tipici dell'universo femminile sono basati prevalentemente sulla globalità, la visione d'insieme, la sintesi, l'intuito, l'emotività, l'affettività, l'ascolto dell'altro, la relazione, la capacità di accogliere. Quelli maschili sono incentrati prevalentemente sulla razionalità, la linearità, l'analisi, l'iter processivo, l'analisi, il contenuto, il compito. Certamente questo è il derivato di una serie di modelli sociali, che tendono ad educare uomini e donne in modi diversi.
Agli uomini si insegna ad essere indipendenti, a controllare e a manipolare il loro ambiente, a pensare in termini astratti, a sottolineare l’importanza della giustizia e delle regole assolute, si vieta loro di esternare le proprie emozioni e le intuizioni. Alle donne si insegna ad essere dipendenti, a far parte dell’ambiente, a comunicare, a preoccuparsi del particolare e della contingenza, ad esprimere le proprie emozioni. Gli uomini percepiscono le relazioni intime come un pericolo, mentre le donne temono la realizzazione sociale perché le può isolare, le può strappare dal reticolo di relazioni in cui sono immerse, tant’è che esse concepiscono l’aggressione come una frattura della relazione umana.
Quella forma alternativa di conoscenza che consiste in uno scatto improvviso dell’intuito in cui elementi in passato disgiunti sembrano andare tutti al oro posto, cioè l’insight, e con il quale le donne hanno naturalmente da sempre espresso le loro capacità, è stato visto nel nostro sistema sociale con sospetto e diffidenza perché fuori controllo, dunque da evitare, mentre sono state sempre legittimate la logica, la ragione, l’ottica processiva. (Montuori, Conti, 1993).
Ciò comporta anche che alla donna che, anziché essere “compagna dell’uomo” e dunque attraente, paziente e accuditiva, voglia salire la scala del successo, venga chiesto di stare alle stesse regole sociali degli uomini, negando di fatto le proprie caratteristiche distintive. Il modello maschile e quello femminile, anziché integrarsi, tendono ad essere internamente divisi e hanno difficoltà ad integrarsi.
Come evidenziato da Jung, lo scopo dell’esistenza sia quello di esplorare pienamente e di integrare i nostri vari processi di pensiero, sentimento, sensazione fisica e intuizione. Ma il paradigma prevalente opera costantemente per tenerli separati.
In realtà, a chi è destinato ad assumere decisioni per la comunità, viene richiesto di avere una visione globale e di sintesi, guidata dalle intuizioni del futuro. Ma la donna è ancora lontana dai luoghi delle strategie e delle grandi decisioni.
La ragione di questo limite risiede anche nella faticosa ricerca da parte della donna dell’autoconsapevolezza come portatrice di nuova cultura e della responsabilità che ne consegue. Anche la sua difficoltà nel "fare lobby al femminile”, intesa come capacità di aggregare le intelligenze per un obiettivo comune, è oggi solo sua responsabilità individuale, che poi diventa di fatto responsabilità collettiva. Il non raggiungimento di quest'obiettivo strategico comporta un rallentamento del processo di emancipazione della società.
Il problema centrale a questo punto è: quali sono i nuovi modelli sociali, i nuovi modelli di manager e d’impresa? E’ un quesito intorno al quale stanno speculando studiosi di varia natura, i quali, formulando ipotesi sulla crisi del Welfare State, del nucleo famigliare, della fine del lavoro, sulla sua evoluzione verso l’intangibile, sull’estetica, sull’emotività, sulla creatività, sulla femminilizzazione delle imprese, nella migliore delle ipotesi vengono ascoltati con grande interesse ma senza sostanziali azioni conseguenti.
Il dualismo modelli maschili e modelli femminili comporta il continuo confronto fra le logiche di standardizzazione e quelle di personalizzazione: i processi vanno standardizzati ma il servizio va personalizzato. Alle imprescindibili esigenze di economie di scala si affiancano quelle di flessibilità.
L'istinto a costituire oligarchie e classi dominanti convive con quello della solidarietà, della collaborazione, della concertazione, delle alleanze sempre più ampie. In tutto questo, la globalizzazione è il fenomeno più vistoso e al tempo stesso contraddittorio.
All’analisi dei bisogni palesi del mercato si affianca la necessità di intuire i bisogni latenti. L’esigenza di vendere puntando a risultati di alta redditività nel breve contrasta con quella di curare il singolo cliente lavorando sui suoi bisogni in un’ottica di lungo periodo e di fidelizzazione.
E’ opinione diffusa che le imprese debbano arricchire il loro servizio di componenti creative, che si debba cominciare a guardare lontano cercando di interrogarsi sulla mission dell’impresa e sul suo destino, che le persone costituiscano la risorsa critica delle organizzazioni e dunque vadano valorizzate individualmente e come gruppi, e che ci sia un grande bisogno di nuove idee, che a volte fanno il destino dell’impresa.
Questi aspetti sono il derivato della polarità intrinseca nel nostro sistema sociale, di cui l'estrema manifestazione è costituita dal dualismo "bene-male", che tanto pesa sulle scelte degli individui.
Femminilizzare presuppone un atto di coraggio: significa focalizzare l’attenzione sui processi di ascolto e dare spazio alla creatività dei singoli, fenomeno che presuppone la valorizzazione del diverso, assumendosi il rischio che può derivarne. Ciò comporta l’attenzione al benessere degli individui e della comunità, alla ricerca dell’estetica.
Femminilizzare vuol dire cultura dell’accoglienza, del dare, della curiosità, del divenire, della flessibilità. Comporta la non centratura sui propri dogmi, ideati per imporsi.
Anche l’impresa viene ormai vista dagli studiosi non come un organigramma, ma come gruppi di individui, indipendenti dai livelli gerarchici, in grado di pensare e perseguire obiettivi in maniera autonoma e di imporsi rispetto all’organizzazione, perché sono essi stessi gli attori del necessario cambiamento. Ciò significa accettare che c’è dell’altro rispetto alle strategie, alle strutture, alle posizioni, ai meccanismi operativi, al compito. Significa scommettere sul fatto che dentro ogni ruolo ci può essere una sorpresa, una scoperta, generata dall’intelligenza emotiva e dall’autonomia di pensiero che ciascun individuo può, deve ed ha diritto a sviluppare. Significa lavorare sugli obiettivi comuni, che solo l'altro (il cittadino, il cliente, ecc.) è in grado di suggerire.
Dunque, l’evoluzione verso la società democraticamente etica, estetica, femminile e colta comporta dei rischi. Ma se accettare questi rischi è un passo difficile, è vero anche che il nostro sistema sociale oscilla tra il bisogno di restare ancorato ai tradizionali modelli e un desiderio di nuovo, che fa fatica ad emergere nel clima di incertezza e di difficoltà in cui siamo abituati a muoverci.
In tutto questo, l'educazione della famiglia, dei primi anni di vita di un individuo, dell'età evolutiva, degli adulti e delle persone anziane (altra manifestazione di autonomia: il proliferare delle università della terza età) assume inevitabilmente un ruolo primario. I responsabili dei processi formativi debbono avere chiaro in mente che devono "allevare" e "facilitare" i semi del nuovo, e devono essere coscienti che oggi la formazione è, ancor più del passato, una leva per il cambiamento, che è continuo e immanente. Occorre quindi un forte senso di responsabilità, un grande ascolto e osservazione del contesto e dei bisogni palesi e latenti, flessibilità, sensibilità al divenire, alla società che si va "democratizzando" e "femminilizzando", agli stimoli che continuamente le persone offrono.
LA FORMAZIONE PER IL BENESSERE
Per ciò che concerne l’educazione degli adulti nelle imprese, la formazione che oggi ha più senso è quella incentrata sui bisogni e sulle idee degli individui, piuttosto che soltanto sulle necessità puramente aziendali. E parallelamente, col crescere della necessità di estetica, cresce l’esigenza di un manager che il mondo delle imprese sta oggi auspicando ma che fa fatica a creare e a valorizzare, poiché opera ancora sulla cultura dell’"economia pesante", dove hanno fino ad oggi dominato le logiche (di per sé imprescindibili, in quanto strutturali dell’impresa privata) del puro profitto e dei risultati economici di breve-medio periodo, con gli sconcertanti risultati che sono sotto gli occhi di tutti.
Gli imprenditori e i manager hanno spesso nascosto debiti, esagerato gli utili, cambiato posto a spese, messo passività fuori bilancio, hanno indotto gli investitori a comprare azioni i cui prezzi erano artificialmente spinti a livelli sempre più alti.
Di fatto, le imprese, oggi in gravi difficoltà, navigano a vista in una condizione di pesante incertezza e il clima aziendale subisce deterioramenti continui. Sembra che gli individui e le imprese (anche quelle pubbliche, che invece hanno l’obiettivo superiore di assicurare il benessere della comunità) siano alla continua ricerca di identità e di senso.
E’ appena il caso di sottolineare che, posto che il cambiamento è continuo e immanente, l’esigenza formativa nasce nel momenti in cui si verifica una condizione di disagio o una disfunzione organizzativa, oppure una diminuita efficienza o efficacia rispetto a standard ritenuti possibili e auspicabili. A fronte di questo, l’organizzazione individua la causa dello scostamento in una carenza di capacità o in un atteggiamento inadeguato da parte di alcune categorie di persone che operano all’interno dell’organizzazione.
L’accelerazione progressiva del cambiamento in atto rende sempre più importante ciò che è necessario sapere rispetto a ciò che si sa, fenomeno che obbliga gli individui e le organizzazioni a mobilitarsi intorno all’elaborazione della conoscenza con un atteggiamento sempre più flessibile e orientato al cambiamento.
Derrik de Kerkhove afferma: “oggi non conta sapere qualcosa, ma sapere come accedere alle conoscenze e riuscire a elaborarle. L’importante è rendersi conto che non pensiamo più da soli, ma connessi alle persone che sono impegnate a risolvere lo stesso problema. Le tecnologie ci fanno accedere a un’infinità di fonti e ci permettono lo scambio intelligente con altre menti”(in Amietta, 2003).
Questo comporta l’evoluzione verso la formazione come apprendimento e leva per il cambiamento. La prima era centrata sul docente e sui suoi saperi, la seconda sulla persona e sulle sue modalità di apprendimento.
E’ ormai fuori tempo e luogo impostare la formazione manageriale sul tradizionale modello diadico docente-discente. Le ragioni sono evidenti: le persone che hanno bisogno di formazione necessitano innanzitutto di poterla calare contestualmente nella specifica realtà professionale quotidiana.
Il sovraffollamento dell’informazione necessità un’attenzione alla selezione delle giuste informazioni da trasmettere, pena il rischio di non essere ascoltati: le persone sono oggi molto più sottoposte a stimoli (in molti casi stressate), colte, informate, autonome, consapevoli, esigenti rispetto a un tempo.
Inoltre, sono a volte le persone stesse che sono in grado di dare al formatore gli stimoli e le informazioni mirate per meglio tarare in itinere l’intervento formativo. Uno dei riflessi di questo fenomeno è l’affermazione del “self-empowerment”, che vede la persona centrale e sempre più autosufficiente rispetto al proprio programma di elaborazione della realtà, della conoscenza, dell’apprendimento, e in grado di potenziare autonomamente le proprie capacità. Da parte del formatore sono quindi d’obbligo la massima flessibilità, un ascolto attento e la capacità di scambiare informazioni, sensazioni, emozioni.
L’esperienza di chi scrive insegna che egli deve avere il coraggio di darsi un tempo per l’estemporaneità, perché non si sa mai cosa potrebbe accadere in aula.
Un percorso formativo manageriale deve prevedere casi di studio, lavori individuali e di gruppo, giochi: l’aula diventa così un laboratorio dove è la sinergia che produce risultati, a volte sorprendenti. In questo caso il formatore deve guidare il gruppo e garantire i risultati, ma il gruppo fa tutto il resto.
E’ il gruppo che fa la differenza: apprende e cresce con molta più velocità ed efficacia dei singoli, facilita gli scambi, è in grado di cumulare conoscenza, gestisce l’ansia dell’apprendimento, seleziona rapidamente ciò che è utile e ciò che non lo è, favorisce i processi creativi, genera continua positività ed entusiasmo e continuo piacere di stare nel gruppo. In formazione, le persone sono spinte a condividere la propria ricchezza con gli altri.
L’apprendimento di gruppo é basato su quello che ogni individuo sa, sa fare e soprattutto sa essere, in sostanza sulla sua originalità. Queste, cioè le proprie caratteristiche personali e la propria capacità di interscambio, sono le più importanti risorse del gruppo, il concreto punto di partenza per ogni elaborazione individuale e collettiva.
Abbiamo potuto constatare che l’eterogeneità delle persone non viene percepita in aula come un disvalore, ma, anzi, lo scambio di esperienze diverse viene visto come un valore aggiunto per uscire dai propri schemi mentali, dalla routine del ruolo e dalla ristrettezza dell’ambito di riferimento.
Fulvio Carmagnola afferma che "un’etica della complessità può emergere dall’interazione tra componenti presenti nei diversi ambiti della cultura attuale….Egli afferma il principio dell’interferenza, e cioè che "è valida quella regola dell’agire che può essere approvata anche da altri gruppi sociali diversi da quello da cui è stata formulata, ovvero che resiste alla prova di verità del dialogo piuttosto che all’astratto confronto con gli imperativi"…..E a proposito dell’insegnabilità, conclude affermando che "per un corretto giudizio morale occorre l’educazione alla cultura della complessità, al confronto con le realtà sociali e normative degli altri gruppi, e la disponibilità alla rinuncia ai propri apriori locali" (Carmagnola, 1990).
Semmai, il problema (o meglio, l’opportunità) è del formatore, che deve comunque garantire coerenza rispetto ai contenuti formativi consentendo alle persone di trovare ciascuno il proprio “filo rosso” per affrontare il cambiamento.
Un’interessante esperienza vissuta da chi scrive è quella della formazione presso due aziende.
La prima, una banca di medio credito, con un mercato praticamente protetto, ottime competenze all’interno e buone potenzialità di sviluppo ma con un elevato tasso di turn-over del personale e quindi necessità di continue assunzioni, con un clima aziendale contraddistinto dalla sofferenza, dovuta essenzialmente all’atteggiamento troppo distante della Direzione Generale, a comportamenti punitivi, repressivi, e contraddistinta conflittualità e antagonismo, da un eccessivo formalismo, rispetto delle regole e di conseguenza un orientamento al compito e non agli obiettivi strategici dell’impresa, peraltro non esplicitati. Nell’aula di formazione, al di là di quelli che sono gli obiettivi dell’organizzazione, abbiamo assistito all’emergere di molte buone idee per la riorganizzazione interna e per lo sviluppo del business, puntualmente segnalate alla Direzione, cui però seguono azioni scarsamente coerenti e a fronte di grosse resistenze, con evidente imbarazzo e frustrazione delle persone.
La seconda esperienza è quella di un call center multiclient, un’azienda molto giovane e dinamica, con ottime potenzialità di sviluppo, dove, al rispetto dei livelli gerarchci, si affianca uno spirito di squadra, con buona mobilità orizzontale interna, un tasso di job rotation piuttosto rilevante. Le persone, stressate dall’incessante attività di telemarketing, vengono spesso (e a volte con tempi e modalità non pianificati) raccolte in un’aula di formazione (oltre al consulente, all’interno esiste una figura, una donna, incaricata di svolgere questo ruolo), o meglio, di “animazione”, una sorta di “pensatoio”, di luogo dove far decantare lo stress e ridere dell’azienda e delle sue persone (soprattutto, inevitabilmente, del top management).
Inoltre, vengono continuamente sviluppate idee, anche attraverso lotterie, giochi, scherzi ed eventi spontanei che generano allegria, sdrammatizzano gli eventi e i comportamenti. In tutto questo, il controllo della produttività in termini di redemption è molto elevato. La convention aziendale cui abbiamo assistito è stata interamente organizzata all’interno, con dei risultati molto interessanti, che sono stati lo specchio del senso di appartenenza delle persone all’azienda e della volontà di perseguire gli obiettivi di business. In un settore come quello dei call center, contraddistinto da un elevato ricambio del personale, questa è un’azienda dove il tasso di fidelizzazione del cliente interno è molto elevato.
Questi casi dimostrano che può essere utile che all’interno delle aziende (o sotto forma di consulenza esterna) sia prevista una figura di “animatore” e che la formazione deve anche prevedere un’attività estemporanea, adattandosi quanto più possibile allo stile e al clima interno dell’azienda.
Il formatore funzionale a questa realtà in evoluzione è evidentemente una figura che ha in sé le caratteristiche di un consulente, di un coach, di un facilitatore/animatore. Deve sentirsi alleato, partner dei partecipanti: il carisma di questa figura non risiede più soltanto nell’autorevolezza dei suoi contenuti professionali, ma anche nella capacità di interagire con l’altro in termini di scambio, restando pur sempre un punto di riferimento e una guida.
Di fatto, il successo della formazione dipende in gran parte dalla disponibilità di formatori che associno alle conoscenze teoriche la credibilità derivante dalla padronanza della cultura delle organizzazioni come insieme di persone, dalla capacità di “stare sempre sull’innovazione” e dal grado di fiducia e di empatia/simpatia che riescono a generare e mantenere.
D’altronde, se il formatore resta ancorato agli aspetti tecnici, deve aspettarsi che prima o poi i partecipanti abbandonino il gruppo di apprendimento: è bene non dimenticare mai che per ciò che concerne gli aspetti tecnici si potrebbe sostituire comodamente il docente con un percorso formativo a distanza.
Fa riflettere il fatto che nel 1985 Gian Piero Quaglino scriveva al riguardo: “Il vecchio modello viene fatto coincidere con l’idea del docente/insegnante ovvero con l’immagine tradizionale, classica e “accademica” dei processi di istruzione. Il nuovo modello viene invece riferito alla figura del docente/guida e coodinatore di un progetto educativo orientato all’apprendimento come momento di reale crescita e sviluppo dei soggetti…. Nonostante fosse già postulata dieci anni fa la necessità di una transizione verso un nuovo modello di formatore, tale transizione non sembra a tutt’oggi avuto seguito: non lo è nei fatti ma nemmeno a livello di teorizzazione. Non lo è compiutamente, seppure già “avanzata, sulla scena internazionale e non lo è, se non in piccola misura, nel nostro paese”.
Ancora oggi il mondo della formazione mostra resistenza al cambiamento, non prendendo coscienza che i cosiddetti “beneficiari della formazione” sono pronti ad accogliere il nuovo, mostrando di essere talvolta un passo avanti a coloro che dovrebbero essere i loro maestri.
Le persone debbono sentirsi in prima persona responsabili del proprio apprendimento, motivati all’autoformazione continua, anche in termini di prefigurazione del futuro e di evoluzione del proprio sistema di competenze. D’altronde, è sulle persone che si fonda il cambiamento.
Si tratta allora di lavorare sulle abilità, sulle attitudini degli individui e non solo sulle capacità sperimentate sul campo, di lavorare anche sul potenziale e non solo sulle prestazioni, aspetto che comporta la capacità e la volontà di indagare sulla personalità oltre che su aspetti prettamente curriculari.
Quanto all’azienda, committente della formazione, essa deve indubbiamente garantire che le competenze delle persone siano costantemente in linea con la mission, con gli obiettivi strategici e con i piani operativi posti in essere. Ma essa deve anche garantirsi continui margini di flessibilità, perché dietro le iniziative poste in essere ogni giorno dagli individui possono manifestarsi nuovi bisogni ed essere intercettate nuove tendenza, nuove idee.
Senza questi requisiti, la formazione corre il rischio di restare confinata ad un livello di “trasferimento di saperi” finalizzati al breve periodo, con il pericolo di essere percepita come un mero centro di costo piuttosto che un servizio e un investimento sulle persone, e dunque sull’impresa.
Un fra i tanti segnali è il fatto che oggi il mondo delle imprese sta superando questa condizione anche con l’aiuto della cultura, vale a dire del cinema, della pittura, della fotografia, che sono entrati a pieno titolo nelle aule di formazione, che si aprono così alle metafore e alle emozioni, per rompere la monotonia della routine formativa, recuperare il senso dello stupore e uscire dal consueto terreno lavorativo, oltre che per accompagnare il formatore a lavorare in modo “alternativo” a lavorare sugli obiettivi individuali e aziendali e sulle capacità inespresse degli individui.
Ma la formazione nelle imprese non è che un anello di una catena, una componente di un sistema che, si sa, parte dell’educazione famigliare per allevare persone che, già dai primi anni di età, vengano educati allo sviluppo di una forte identità individuale e sociale. La forza degli educatori sta nel comprendere (e nel consentire a coloro che hanno bisogno dell’educazione di comprendere per ciò che li riguarda) "chi siamo" e "qual'è la nostra reale e forte identità", "cosa abbiamo che ci possa distinguere da chiunque altro (la caratteristica distintiva per cui gli altri ci dovrebbero "scegliere")", “quali sono gli obiettivi e i contenuti di ciò che vogliamo fare” e “cosa e quando decidere insieme agli altri”, con serenità e sicurezza, individuando la strada da tracciare e da percorrere, nella consapevolezza che, in itinere, le cose per forza (e per fortuna) cambieranno, perché il cambiamento è l’essenza della vita, in un’idea eraclitea, che la filosofia orientale ha da sempre coltivato, dell’eterno fluire dell’esistenza come sintesi tra passato e futuro.
Sono questioni enormi.
CONCLUSIONI
A nostro avviso il modello educativo “femminile”, relazionale, orientato all’ascolto e alla creatività, partecipativo e coinvolgente si adatta meglio a questo emergente bisogno di autonomia e partecipazione, a quella che definiamo una “formazione all’incertezza e alla visione del futuro”.
L’era del cambiamento, fonte di disorientamento, è al tempo stesso portatrice di stimoli verso nuovi ambienti, tutti da scoprire e da esplorare. Ed è evidente come il cambiamento sia nemico dei dogmi e dell’ortodossia, sviluppa il meglio di sé nella curiosità, nella flessibilità e nell’apertura al nuovo. Implica scelte coraggiose, non si esplica nella solitudine, non è autorefenziale e ha bisogno di menti e di fattori facilitatori. Il vero cambiamento è quello fuori dal sistema, e come tale è un pò curioso e destabilizzante, ma è il solo possibile, se si ha reale volontà di cambiamento. E le basi vanno costruite ex novo, non su fondamenta esistenti, o su un cumulo di macerie.
D’altronde, la stampa non è stata inventata dagli amanuensi ma da un orafo, le automobili non da un conduttore di carrozze ma da un imprenditore.
L’operazione più onerosa per chi ha la responsabilità, l'onere e il privilegio di educare e formare persone è quella di smantellare le roccaforti del vecchio che non serve più e di cercare e sviluppare nuovi modelli e ambienti, nuove esperienze di crescita, con l’aiuto di mondi diversi e anche di chi è destinato a recepire gli stimoli della formazione.
In questa grande complessità, che sembra arricchirsi di positive contaminazioni culturali, le forme dell’estetica, del cambiamento continuo, la questione, o meglio "l'opportunità" femminile, richiedono riflessioni da non poco in termini visione del futuro e di strategie decisionali da condividere all’interno di sistemi sempre più ampi, alla ricerca di continui equilibri tra ciò che è stato fatto nel passato e ciò che possiamo e vogliamo fare per il nostro futuro.
Rossella Martelloni
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L’autore:
Rossella Martelloni, specializzata in psicologia del lavoro, è consulente di formazione manageriale. E’ professore a contratto in materia di learning organization e comunicazione interpersonale presso la Link Campus University of Malta di Roma, dove dirige il Centro Studi sull’Apprendimento.
Riassunto:
Molti sono i segnali che ci portano a pensare che la società sta evolvendo nella direzione di un modello partecipativo e “femminile”. Sia le istituzioni, come pure le organizzazioni e i gruppi, rifiutano sempre più l’idea di una leadership autoritaria e autocentrata. In questo significativo processo di cambiamento, la formazione è chiamata in causa nella direzione della valorizzazione dell’individuo in termini di autoapprendimento e di visione del futuro.