Rubrica L’alfabeto del Cambiamento
C
come Community
Cosa sono le community? Possiamo definirle un ambiente in cui si sviluppa un sistema di apprendimento basato su un’interazione informale fra le persone che permette una maggiore e più ampia comprensione di un campo tematico e un approccio al tema condiviso. Le community facilitano lo sviluppo del senso di appartenenza e lo sviluppo di una più chiara identità professionale, individuale e di gruppo.
Questo fenomeno è in esplosione grazie alla rete, ambiente ideale per lo sviluppo dell’intelligenza collettiva, distribuita ovunque, continuamente valorizzata, coordinata in tempo reale, che porta a una mobilitazione effettiva delle competenze e alla cura delle connessioni che rendono possibile l’accesso alla conoscenza.
Le persone sono sempre più alla ricerca di scambi fra pari, dove cercare risposte a problemi, sviluppare idee, scambiarsi informazioni, trovare opportunità. Sono alla ricerca di un ambiente dove sentirsi protette, confortate e supportate, nella consapevolezza crescente che da soli non si va granché lontano, mentre facendo network si possono cogliere molte più opportunità. Dalle tante community spontanee emerge una “sete” inesauribile di confronto con gli altri. Per le aziende questo è un fenomeno da tenere nella massima considerazione.
Esistono dei rischi nelle community in rete, come quello di lavorare in superficie, in eccessiva fretta rispetto al bisogno di elaborare gli stimoli, con l’ansia di dover apprendere velocemente, con un carico eccessivo di stimoli. Le opportunità sono invece quelle di ottimizzare il tempo dell’apprendimento, di arricchirsi di stimoli creativi sempre nuovi, di soddisfare una serie di curiosità, di un apprendimento libero, svincolato da un obiettivo e sviluppato per il piacere di navigare e curiosare, attraverso un qualunque device e in ogni luogo.
Quando entriamo in azienda, le community tendono sempre più a sostituire il concetto di “famiglia professionale” per strutturarsi come una “learning community”: possono essere funzionali per la gestione del cliente, per dare propulsione all’innovazione con modelli partecipati, per far circolare sapere, per generare forme di interazione operativa nuova fra colleghi.
Se è vero che in azienda le tecnologie (come una piattaforma social, ad esempio) abilitano, dobbiamo sempre ricordare che le community rappresentano uno spazio umano e non tecnologico. Sotto la messe di processi, procedure, job profile, linee guida, modelli, schemi, indicatori, organigrammi, comunicati, ecc...) a volte sovrabbondanti, in continuo cambiamento e di difficile comprensione, esiste una fitta rete di relazioni – molto spesso informali - che creano una tessuto molto forte nel quale si muovono informazioni, saperi, leadership, aspetti culturali e affettivi, relazioni sane o conflittuali.
In realtà questa è l’azienda reale, quella che prende spontaneamente corpo dalle idee, dalla cultura, dalla volontà e dai comportamenti delle persone. Quella che si regge, ad esempio, sul valore Fiducia oppure sul disvalore della Diffidenza. Fra l’altro, si ha la sensazione che, più le aziende rischiano di perdere il controllo sulle persone, che nella rete trovano la massima libertà di espressione e apprendimento (ricordiamo, ad esempio, che le migliori conferenze del mondo sono oggi quasi tutte gratuite), più tendono ad aumentare il controllo stesso, diventando così dei contesti di progressivo disagio…
Piuttosto, val la pena di domandarsi come intercettare la struttura di interessi comuni presenti in azienda e valorizzarli. Cominciamo col dire che esistono dei vincoli importanti da considerare: uno organico, e l’altro culturale.
Quello organico riguarda l’impossibilità di agire su sistemi troppo strutturati, burocratici e formali come sono diverse aziende. Qui un approccio di rottura in genere non aiuta il cambiamento, perché si generano quasi sempre forme di grande resistenza e chiusura.
Quello culturale riguarda il senso che le organizzazioni offrono alle persone: qui non funziona la retorica del cambiamento, è invece molto più efficace la lenta messa a valore di esperienze pilota che permettano di apprendere, assorbire e metabolizzare dinamiche nuove in cui le persone possono trovare spazio. Funzionano i casi di successo, quelli di insuccesso e i laboratori, soprattutto se si sa imparare dagli errori.
Se è vero che possiamo immaginare un futuro in cui le organizzazioni si baseranno molto su interazioni (soprattutto fra pari), su logiche bottom-up che sostituiranno la leadership fondata sul modello “comando e controllo” adottandone uno più libero e “liquido”, l’opportunità già da ora è quella di liberare queste energie e metterle a sistema facendo lavorare insieme due aspetti delle organizzazioni: quello formale, molto strutturato e quello informale, fluido ed estremamente dinamico, come avviene nella rete.
Il ponte fra questi due mondi possono essere le community: mantengono una dinamica di scambio fra le persone che vi aderiscono, favoriscono un pensiero innovativo, permettono alla persone di esprimere idee che poi crescono, maturano tramite le conversazioni, favoriscono l’integrazione e l’engagement.
Le community in azienda (che siano di interesse o di pratica) vanno pensate rispondendo a domande:
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sul senso dell’agire in community (cos’è e cos’è per me la community?)
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sul trust (quanto ci credo e quanto mi fido di espormi e condividere?)
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sull’utilità (che vantaggio traggo?)
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sugli aspetti concreti (come lo posso fare?)
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sul coinvolgimento (mi sento parte della community?)
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sul contributo (cosa mi piacerebbe dare?).
Va detto che, se le persone non si fidano dei propri colleghi, dei propri capi e ancor meno del vertice dell’azienda, pensare allo sviluppo di community può essere un’impresa destinata a fallire: ma il danno che ne conseguirebbe sarebbe molto elevato.
La direzione sembra infatti essere sempre più quella dell’azienda social (in Italia esistono diversi casi di aziende che hanno avviato progetti di Social Transformation e Social Collaboration) di cui le community – con il loro potenziale di integrazione, collaborazione e innovazione - rappresentano l’aspetto più significativo.
Una domanda opportuna è: nella nostra azienda le persone hanno il coraggio e il piacere di esporsi dando contributi, mettendo in condivisione, facendo domande, rispondendo a quesiti? Se la risposta è negativa, o quanto meno scettica, bisogna lavorarci.
Si ha un bel dire rivoluzione digitale: il vero lavoro “rivoluzionario” è sulla cultura, sui comportamenti e sull’integrazione fra le persone. Visto il clima aziendale in progressivo deterioramento, è questa la vera sfida che, se colta e vinta, può vedere nelle community e nell’ambiente social una grande opportunità.