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Rubrica L’alfabeto del Cambiamento

L

come Lavoro

La fotografia del nostro Paese per ciò che riguarda il lavoro si fa sempre più complessa, sicuramente in grande fermento e in qualche modo contraddittoria. 


Si alternano alcuni momenti di leggera ripresa del mercato a lunghi periodi di depressione. Continue acquisizioni e fusioni fra aziende determinano cambiamenti negli indirizzi strategici, nei piani industriali, nelle politiche finanziarie, di marketing, di gestione delle risorse umane. Nascono continuamente startup, alcune sono veramente innovative, la maggior parte meno e un congruo numero muore entro i primi anni di vita. I cicli di tutto questo sono sempre più brevi.


Le aziende debbono rapidamente sviluppare progetti di gestione del cambiamento, per evitare l’obsolescenza dei prodotti, dei servizi, delle competenze, dei processi e soprattutto della mentalità. Si ha bisogno di persone con le spalle forti e i nervi saldi. Serve la capacità di vivere con equilibrio, autonomia, resilienza, flessibilità e positività in contesti turbolenti. Forse è anche per questo che da alcuni mesi le società di Head Hunting registrano da parte delle aziende clienti progressive richieste di professionisti “over 45”, in discontinuità rispetto alla tendenza finora registrata di ricercare giovani manager, giovani talenti.  Si viaggia su due principali macro temi di attualità: la digitalizzazione e l’internazionalizzazione dell’impresa.


La Pubblica Amministrazione impatta su queste spinte e cerca di adeguarsi con progetti di cambiamento sapendo quanto sia difficile cambiare la testa delle persone, la cultura, il modo di vivere e affrontare il lavoro. Ma sono in gioco evoluzioni ineludibili. Gli ambienti professionali debbono confrontarsi con il tema sempre estremamente attuale della leadership. Per sua natura situazionale e trasformazionale, oggi si sta spostando sempre più verso una connotazione relazionale, proiettata verso l’evoluzione dei piani strategici e le politiche di People Care, per ingaggiare e valorizzare persone e team al fine di raggiungere obiettivi sempre più sfidanti.  La progressiva autonomia delle persone e la strutturazione del lavoro anche su basi social, di reti, community e network richiede una leadership che si liberi dei vecchi abiti un po’ logori del semplice “rapporto capo-collaboratore” e si fondi su una leadership più informale, orizzontale e diffusa.


Le libere professioni risentono fortemente di un mercato estremamente incerto, dove i tempi decisionali dei clienti sono molto lunghi, ma quando viene presa la decisione si formulano richieste complesse, dove l’impegno del consulente non è a volte ripagato adeguatamente in termini economici. Le parti sindacali soffrono di un ridimensionamento del loro ruolo, visto che il mercato crea continui esuberi, le aziende diminuiscono progressivamente l’organico e non ci sono prospettive di rimpiazzo, la coperta è oggettivamente corta e il lavoro dell’uomo tende ad essere progressivamente sostituito dal digitale, dall’intelligenza artificiale e dalla robotica. I giovani stanno capendo che bisogna andare dove c’è lavoro, e se questo dovesse comportare andare all’estero, la decisione non sarebbe facile, ma essere cittadini del mondo è un atteggiamento, un modo di essere che può dare grandi risultati, anche volendo restare in Italia.


In tutto questo, si tende a impegnare quanto più possibile il capitale umano attivo sottovalutando una forza lavoro potenziale costituita da quello inattivo, cioè la grande massa dei disoccupati. Il paradosso è che in una stessa famiglia il padre lavora 12 ore al giorno impegnando a volte anche il week end, mentre il figlio è disoccupato. In un famoso discorso tenuto nel 1928 agli studenti del Winchester College, John Maynard Keynes, considerato da molti come il più grande economista della storia, prevedeva che l’aumento della “efficienza tecnica” (cioè della produttività del lavoro) dovuto agli sviluppi scientifici e tecnici - da lui stimato in non meno dell’1% all’anno - avrebbe progressivamente portato alla “disoccupazione tecnologica”.  


Keynes spiegava come, nell’arco di un secolo, settimane lavorative di 15 ore sarebbero state più che sufficienti a garantire il soddisfacimento dei bisogni di tutti. Ed effettivamente, come conferma un rapido calcolo, un aumento annuo dell’1% (composto), per 100 anni di seguito, comporta un fattore moltiplicativo di circa 2,7: in tali ipotesi 15 ore di lavoro sono quindi sufficienti a realizzare la stessa quantità di prodotto di 40 ore di un secolo prima.


Oggi il sociologo Domenico De Masi ipotizza un modello sociale in cui si possa lavorare mezza giornata, dando possibilità a tutti di lavorare.  Lavorare meno, lavorare tutti.  Si riducono i guadagni, a vantaggio anche di una maggiore stabilità sociale e della qualità della vita. A pensarci bene, potrebbe essere un modello da sperimentare.  Chissà se un giorno ci potremo arrivare. 

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