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Rubrica L’alfabeto del Cambiamento

I

come Industria 4.0

In questo momento si parla molto di Industry 4.0.  Ad oggi non c’è ancora una chiara e precisa definizione ma, citando alcuni analisti, si tratta di “un processo che porterà alla produzione industriale del tutto automatizzata ed interconnessa”. Una definizione un po’ generica e parziale, ma che dà un’idea generale.


Il concetto di Industry 4.0 è stato utilizzato per la prima volta nel 2011 in Germania in occasione della Fiera dell’Elettronica ad Hannover, per descrivere un progetto sponsorizzato dal Governo tedesco.


A quel punto, quest'idea è stata declinata in diversi paesi.


2012: la Danimarca con il Piano “Made” e gli Usa con “Manufacturing Usa”;


2013: il Belgio con “Made Different”, l’Inghilterra con “Catapult – High Value Manufacturing”;


2014: l’Olanda con “Smart Industry”;


2015: la Cina con “Made in Cina”, il Giappone con “Industrial Value Chain Initiative”, l’India con “Make in India”, in Canada e Corea  con “Innovation in Manufacturing 3.0”;


2016: l’Italia con il Piano Industria 4.0, presentato il 21 settembre 2016 dal Governo Renzi, prevedendo investimenti per 13 miliardi di euro per il periodo dal 2017 al 2020 e che si basa essenzialmente sulle tre direttrici che seguono.


Diffondere la cultura di Industria 4.0 attraverso la Scuola digitale e l’alternanza Scuola lavoro; sviluppare le competenze su Industry 4.0 attraverso percorsi universitari e istituti tecnici superiori dedicati; finanziare la ricerca, creare dei Competence Center e Digital Innovation Hub intorno ad alcune Università.


Il tutto coinvolge la Presidenza del Consiglio, sei Ministeri, la Conferenza Stato-Regioni, la Cassa Depositi e Prestiti, alcune università di eccellenza, rappresentanti dell’imprenditoria e i Sindacati. Cosa c’è a monte di tutto questo? Tanto per prendere una fonte di riferimento, il report del World Economic Forum “The Future of Jobs and Skills” evidenzia come la digitalizzazione, la robotica, l’intelligenza artificiale e tutte le nuove tecnologie digitali si stanno diffondendo a una velocità esponenziale, generando – per usare un termine ormai quasi abusato ma realistico - “cambiamenti epocali” nel mercato del lavoro. Che più o meno significa che i fattori tecnologici, demografici, geografici, politici, economici e sociali ad essa collegati porteranno ad alcuni cambi di paradigma, alla fine di molte categorie professionali e la nascita di altre.


Ma uno dei dati più significativi che emerge dal rapporto è quello secondo il quale nei prossimi 4 anni si prevede la creazione di 2 milioni di posti di lavoro e la scomparsa di 7 milioni. E l’orizzonte temporale del report arriva fino al 2020…
Le dichiarazioni di intenti del Governo e i progetti di vasta portata che ne derivano debbono confrontarsi con due fenomeni: l’erosione costante e inarrestabile di posti di lavoro e l’arretratezza culturale del nostro Paese per ciò che riguarda il digitale.
Il primo è di una tale portata che non basta certo il report del WEF a descriverne la dimensione, l’impatto e le conseguenze ipotizzabili. Il secondo fa emergere il paradosso per cui si parla di 4.0 quando ancora non si è metabolizzata ed elaborata la fase 2.0.  Sacche di resistenza al cambiamento sono ovunque e sotto gli occhi di tutti, in particolare nella Pubblica Amministrazione.
L’impegno richiesto da parte di tutti è consistente.

 

Si tratta di cavalcare la tigre cogliendone tutte le immense potenzialità: nella medicina, nei servizi alla persona, nella ricerca e nell’elaborazione dei Big Data (una mole di informazioni che girano, si moltiplicano esponenzialmente e che vengono sempre più organizzate e messe a disposizione della comunità mondiale). E ancora, nei trasporti e nella logistica, nell’automazione dei processi, nel marketing e nella gestione della relazione con il cliente, nell’education, nella finanza, nei processi di acquisto, nell’ingegneria, nei servizi di consulenza di vario tipo, nella gestione del tempo libero, ecc…
Si tratta anche di accettare il fatto che tutto questo comporta inevitabilmente un aumento della disoccupazione e crea scenari inediti, che facciamo fatica a preconfigurare.


L’Italia marcia quasi sempre lentamente, come se l’immenso portato culturale delle tradizioni di questo Paese – che è un valore inestimabile – rappresentasse una zavorra alla cultura dell’innovazione, dell’efficienza, dell’alta qualità. Il passato pesa sul presente, e soprattutto sul futuro. Cooperare efficacemente è piuttosto difficile, il nuovo si elabora con fatica. Non è certo questa la sede per addentrarci nelle molteplici cause storiche di tutto questo.


A detta di molti però, la nostra burocrazia è la prima causa della “lentezza” del cambiamento nel Paese, nel pubblico e – in misura minore - anche nel privato, poiché tiene in vita certa cultura del convenzionalismo e dell’osservanza di regole che hanno scarso senso e delle procedure, come fossero uno schermo protettivo contro il decidere e il fare.  Il presidio dello status quo è forte, ma il paradosso è che invece fuori dell’azienda, nella vita personale e sociale, le persone utilizzano con disinvoltura strumenti digitali e ambienti social.
Ci si può limitare ad affermare due cose. Primo, l’investimento in ricerca e formazione deve essere poderoso. Formazione per stimolare una nuova, diversa cultura del lavoro, del fare, dell’agire nelle organizzazioni, delle reti, delle community e delle relazioni collaborative, non più legata al luogo fisico di lavoro e al semplice output del “processo di produzione”, sia esso di un prodotto o di un servizio.
Secondo, si sente un gran parlare di “macchina”, ma il termine è fuorviante, perché di macchine ce ne saranno sempre meno in questa società postindustriale.


E’ opportuno invece parlare di digitale, che è ben altra cosa: il digitale è poco visibile, per certi versi intangibile, con un tasso di innovazione altissimo e rapidissimo, soggetto a continui salti evolutivi, estremamente pervasivo e di per sé profondamente rivoluzionario, in grado di cambiare il DNA della società.


Non solo, ma le aziende stanno avviando progetti “Digital”, a volte sottovalutando che l’altra rivoluzione culturale è quella “Social”. Perché dopo la scorpacciata digitale, una volta acquistate piattaforme, software, intelligenze artificiali, ecc., ciò che i lavoratori si troveranno sempre più a vivere sarà una condivisione della conoscenza, ci si troverà a dover collaborare di più, ciascuno da luoghi diversi, interconnessi, dove sarà tutto più trasparente, più “open”. Le piattaforme social in azienda soppianteranno progressivamente le e-mail, l’organizzazione verrà letta sempre meno in chiave di organigramma e sempre più di social network analysis, e chissà cos’altro succederà.


Andando al nocciolo, ci limitiamo a immaginare un mondo del lavoro sicuramente molto “diverso”, digitale, social, e dove l’utilizzo della robotica sarà sempre più diffuso.


Soffermandoci sul “qui ed ora”, intanto dobbiamo elaborare rapidamente e bene la dimensione 2.0.  Se non ne presidiamo gli aspetti culturali, sociali, di mercato, organizzativi e relazionali, il digitale rischia di colpire come un boomerang nella traiettoria di ritorno. I cambiamenti culturali, si sa, sono lenti, vanno gestiti in un’ottica proattiva, vanno accompagnati con cura e senza mai mollare.
Per il 4.0 – che non è del tutto chiaro in cosa si differenzi - c’è ancora un po’ di tempo per elaborare. Ma solo un po’. Nel frattempo possiamo goderci i grandi benefici che l'utilizzo del digitale è in grado di portare per la qualità della vita e del lavoro.

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