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Rubrica L’alfabeto del Cambiamento

G

come Generazioni

Nel momento attuale il mercato del lavoro deve confrontarsi con la compresenza di cinque generazioni ancora attive. Senza avere pretese di generalizzazioni - perché sappiamo che occorre fare molti distinguo - vederle sinteticamente in termini di fasce di età può essere utile.


Oltre i 65 anni: vengono definiti “Veterani”. Sono persone che hanno bisogno di stabilità e di regole. Hanno rispetto per l’autorità e in genere vengono definiti “aziendalisti”. Nostalgici del passato, pensano a quando “si stava meglio”, ai progetti memorabili cui hanno partecipato e hanno piacere se qualcuno chiede loro di raccontarli, oppure di essere dei mentori.  Si sentono “a fine corsa”.


Dai 50 ai 65 anni: vengono chiamati “Baby Boomers”, in quanto nati in un momento di esplosione delle nascite. Si tratta di una generazione che ha vissuto il ’68 e i grandi movimenti sociali e di pensiero degli anni ’70. Hanno una cultura trasformativa e generativa, poiché da giovani credevano che il futuro sarebbe stato diverso e migliore del presente, e questo futuro sentivano di contribuire a generarlo.  Hanno bisogno di sapere che lasciano un’eredità “utile” alla comunità. 


Dai 35 ai 50 anni: è la “Generazione X”: più flessibile, sensibile ai cambiamenti, con una mentalità influenzata dall’avvento della globalizzazione. Hanno una forte tensione al proprio sviluppo professionale e a raggiungere gli obiettivi di carriera che si sono prefissi, altrimenti sentono il peso del tempo che passa, entrano in frustrazione e si guardano intorno per capire dove possono collocarsi. Superati i 45 anni, cominciano a temere di essere fuori mercato. Sentono il bisogno di coaching.


Dai 25 ai 35 anni: si tratta della “Generazione Y”, più comunemente definita “Millennials” (nati trai i primi anni ’80 e i primi anni 2000). Concentrati sul “qui ed ora”, un po’ inquieti e disorientati, hanno bisogno di riappropriarsi di un futuro che pensano sia stato loro “scippato”. Sentono di voler apportare dei cambiamenti necessari a migliorare la comunità e il mondo. Ne sono dei segnali la loro attenzione ai temi ecologici e a quelli della corretta nutrizione, il loro stile minimalista, il loro ritorno ai valori famigliari, talvolta anche in controtendenza rispetto a certi modelli “alternativi” di alcuni genitori. Sentono anch’essi il bisogno di coaching e ancor più di mentoring.


Dai 20 ai 25 anni: è la “Generazione Z”. Amano essere autodidatti e liberi. Sono focalizzati sul futuro e sulla dimensione social e digital. Si sentono cittadini del mondo, sono unformal e veloci. Poiché sentono la mancanza di punti di riferimento, li cercano nella rete partecipando a community, dove lo scambio fra pari è l’elemento principale. Hanno un approccio “mobile first”: considerano il proprio device tecnologico (cellulare, palmare, ecc.) un loro grande punto di riferimento: per loro il mondo è soprattutto lì. La voce “pensione” è assente dalle loro categorie mentali.


Dando un’occhiata a questa “fotografia”, l’impressione che si ha è quella di una grande complessità.  E fin qui, parliamo di una condizione che ci è sempre più familiare.  L’altra sensazione, più impressionante, è quella di una sorta di modifica cromosomica della nostra società e del mondo del lavoro.  La prima generazione è relativamente statica, fidelizzata, identificata con il proprio ruolo, con l’azienda e con il proprio territorio; l’ultima è mobile, non fidelizzabile, sente di doversi e volersi spostare da un paese all’altro, è tutt’al più identificata - se proprio ce n’è bisogno - con le community di colleghi e amici.  La prima è solida, l’ultima è liquida, come direbbe il sociologo e filosofo Zygmunt Bauman.


E’ la fotografia, anzi, il film dell’evoluzione dei nostri tempi: una destrutturazione progressiva dei contesti aziendali e al tempo stesso una loro “estensione” nella rete. Una crescente perdita di punti di riferimento, soprattutto se si pensa al futuro. I legami tra la persona e l’azienda sono sempre più labili; oggi c’è un’occupazione, domani ce ne sarà un’altra, e più d’una contemporaneamente. 
Il positivo di tutto questo è la minore dipendenza degli individui da qualcosa o da qualcuno.  Un tempo avere una promozione, un passaggio di livello da parte di un “capo” era una grande emozione, nella certezza che si stava costruendo qualcosa di importante. Oggi di capi ce n’è sempre meno, il rapporto di lavoro comincia a somigliare sempre più a una libera professione con connotati di autoimprenditorialità.  L’incertezza domina.


Un altro aspetto positivo è che i giovani sanno che debbono farsi venire delle idee, perché in base a quelle possono prendere iniziative e costruire il loro spazio di lavoro, quanto meno per il prossimo futuro. Poi domani si vedrà, pronti a intercettare un’altra opportunità.
I “super senior” stanno a guardare un po’ disorientati e a volte scandalizzati, scuotono la testa, intuendo che forse ci sarebbe bisogno di loro ma non sanno come fare e soprattutto chi o cosa li possa valorizzare.


Come mai si lasciano andare in pensione individui che detengono un interessante know how senza dare prima la possibilità di riversarlo a chi resta? Come mai non si affiancano i giovani con dei mentor esperti, così da farli crescere meglio, più rapidamente e con maggiore “saggezza”? Perché non integrare le varie generazioni facendole dialogare e collaborare? Come fare in modo che ognuno non pensi per sé, non si lavori a compartimenti stagni, ma si comunichi efficacemente? Certo è che questa “diversità”, piuttosto che vederla come un tema potenzialmente conflittuale, bisogna gestirla e soprattutto valorizzarla. 


L’integrazione fra le varie generazioni rappresenta un vero e proprio patrimonio che il mondo del lavoro fa fatica a far emergere.  Piuttosto che dare contributi in danaro a chi ne ha bisogno, l’esperienza insegna che è più sensato dare strumenti perché ciascuno si attivi, che la comunità si attivi. I soldi finiscono subito, il know how, i valori e il senso della comunità restano. 
Questo lo si può fare creando momenti di scambio di esperienze e collaborazione attraverso la formazione, gli incontri, gli eventi e i progetti dedicati, dando voce alle persone: insieme si cresce di più e meglio. E’ un po’ come dire: “piuttosto che dare pesci alle persone, insegniamo loro a pescare”. E “peschiamo insieme”. Può essere una pesca fruttuosa, approfittiamone ora finché ci troviamo in questa condizione così particolare.

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