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Rubrica L’alfabeto del Cambiamento

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come Felicità

Il momento attuale è talmente “particolare” da indurci a fare delle serie riflessioni sulla qualità della vita e del lavoro. A sentire i commenti di molte persone, la sensazione è quella di un sistema sociale che sembra andare verso una sorta di implosione.  Il mondo del lavoro vive livelli progressivi di difficoltà.  Si percepisce che si sono fortemente indeboliti alcuni valori e aspetti fondamentali: la coerenza, la fiducia, la chiarezza sulla direzione da prendere e il senso di ciò che si fa. Questo accomuna quasi tutte le aziende: piccole, medie, grandi, multinazionali. E allora le imprese si mobilitano per motivare e ingaggiare le persone, per dare loro voce e farle integrare fra loro, per sintonizzarsi sul cuore dei dipendenti, per avvicinarli nuovamente all’azienda. 


Spesso negli incontri fra persone qualcuno inizia commentando una brutta notizia apparsa sui giornali o in televisione e giù, una poggia di commenti negativi, di paura, disgusto, indignazione, preoccupazione per il futuro.  A quel punto arrivano i soliti discorsi sul momento che stiamo vivendo e sulle “non prospettive” per il futuro. A questo si aggiungono le critiche aspre nei confronti del nostro paese, con qualche tratto narcisistico che ci fa dire che “però” il nostro è il più bel paese del mondo.  E intanto proliferano i siti dove ci sono le istruzioni dettagliate chiavi in mano per mollare tutto e andarsene in altri paesi, più o meno economici, più o meno dotati di un sistema fiscale vantaggioso, ecc. Qualcuno se ne va e qualcun altro resta, lamentandosi, e continuando a dire che se ne andrà. Un certo numero di persone ad andarsene non ci pensa per niente e dice, pur lamentandosi, che l’unico paese al mondo dove potrebbe vivere è l’Italia….


La bella notizia sembra piuttosto impopolare, poco significativa, perché si ritorna sempre alle catastrofi, che sembrano più familiari.  La cronaca nera, oggetto di morbose attenzioni, spaventa ma ha un grande successo. E’ evidente che anche per questa crescente pressione si sta assistendo ad alcuni fenomeni compensativi: le persone, sature di negatività, oggi molto più di ieri ricercano una strada che possa renderle più serene, appagate, più capaci di provare entusiasmo.  Le lezioni che abbiamo appreso ci fanno pensare che tenere sempre il piede premuto sull’acceleratore sia una condizione che molto difficilmente ci porta a qualcosa di buono.


Ed ecco che aumenta la letteratura sul tema della felicità, escono film con titoli dove compare questo termine. Aumentano le persone che ricorrono a centri dove si incontrano con gli altri per fermarsi, meditare insieme, trarre stimoli da maestri o letture antiche, o a centri dedicati al benessere psico-fisico, al relax. Appena possono, le persone staccano la spina e si rifugiano in qualche “buen retiro”.
Aumenta l’interesse per le culture più “sagge” e meno “industrializzate” della nostra, aumenta l’attenzione per l’alimentazione biologica, la naturopatia e le cure alternative, aumentano i vegani. I contesti lavorativi – in particolare le grandi organizzazioni - cominciano a sperimentare esperienze formative sulla felicità in azienda, che fino a ieri sarebbero state impensabili.


Imprenditori, manager, professionisti, ricorrono in maniera crescente a coach con cui poter fare in tempi brevi tempo il punto della propria situazione, un bilancio delle competenze e avere un supporto al percorso di carriera.  E a volte capita che, vivendo esperienze molto faticose, cominciano a pensare di ridimensionare il loro stile di vita e fare delle scelte professionali nella direzione di ciò che li rende più appagati, motivati, più in linea con i propri valori.  Come dire: guadagno di meno ma sono più felice. Fino ad alcuni anni fa questo bisogno di ritorno alla semplicità era inimmaginabile. 


Tutti questi sono trend in crescita. Sembrerebbe quasi che la corsa al successo stia rallentando, un po’ perché è una scelta forzata, un po’ perché la crisi, che contiene sempre il germe dell’opportunità, spinge le persone a farsi delle domande: (ad esempio: vale la pena?)
La verità è che stiamo vivendo un cambiamento enorme e siamo in un crinale dove il vecchio viene spazzato via ogni giorno, ma il nuovo, che incalza prepotentemente, fa fatica ad essere metabolizzato. A sentir parlare certi vecchi “boiardi di stato” attaccati al presidio dei propri privilegi e certi giovani digitali in continua mutazione, cittadini del mondo, sembra di avere a che fare con due galassie che non si capiscono, non si parlano, non si conoscono, o fanno finta di non conoscersi. E pensare che proprio dalla loro integrazione potrebbero nascere vantaggi.  Diverse aziende questo lo hanno capito e stanno attivando progetti di gestione del passaggio generazionale, di Age Management e di Mentoring.


C’è comunque molta resistenza, c’è spesso incapacità a rendersi conto di dove stiamo andando.  Un interrogativo a questo punto è legittimo: questa società, le nostre aziende, sono in grado di produrre benessere, felicità o sono produttrici di malessere, di infelicità?  Ma di cosa parliamo? Provando a fare un’estrema sintesi dei tanti studi che da sempre si concentrano sul tema, la felicità sembra essere il risultato di un mix di fattori. La percezione di controllare con un certo distacco le sfide che la vita ci riserva superando gli inevitabili alti e bassi dell’esistenza. La capacità di amare e di godere di ogni attimo provando emozioni positive derivanti dai tanti piaceri.  Una sensazione di autorealizzazione, di pace e di saggezza.  La consapevolezza e il desiderio di usare le proprie potenzialità al servizio degli altri.


Un aspetto che accomuna molte definizioni di felicità è la scomparsa di ogni conflitto, uno stato di bellezza interiore, la capacità di vivere pienamente il presente in un flusso continuo di godimento dell’esperienza.  Scompaiono le memorie e i pesi del passato, scompare l’ansia di progettare il futuro.  C’è il godimento del presente. Utopia? Probabilmente. Aggiungiamo però che la felicità è frutto di un percorso interiore che va di pari passo con la saggezza, che non può certo essere fatto in poco tempo. E ci sono aspetti a volte sorprendenti sul rapporto che ciascuno di noi ha con questo fondamentale aspetto della vita.


In realtà la felicità ciascuno di noi l’ha sperimentata diverse volte nella vita. Semplificando molto, dato che non dipende da fattori esterni, ma piuttosto da come ciascuno di noi ha imparato a viverli, il punto è che non sappiamo coltivarla, e così scivoliamo nell’opposto. E il contesto, di cui noi siamo parte attiva, non aiuta, anzi... E’ un circolo vizioso. Se proprio facciamo fatica a chiamarla felicità, dobbiamo però tenerla in massima considerazione. Con ogni probabilità sarà un tema che nei prossimi anni, con tutte le cautele del caso, occuperà in maniera crescente il tempo, la mente, i dibattiti, gli studi e i progetti delle persone, mettendo in crisi il mito dell’efficientamento fine a se stesso, dell’accelerazione esponenziale del cambiamento da cavalcare ciecamente, e di diverse altre cose. Anche questo è il “nuovo mondo”.


E poiché - come molti “futurologi” hanno profetizzato già diversi anni fa – fra scarsità delle materie prime, globalizzazione, diminuzione dei consumi, digitale e robotica, il lavoro verrà sempre meno, è bene scegliere sin d’ora che posizione vogliamo prendere riguardo alle nostre scelte professionali, all’indirizzo che vogliamo dare alla nostra vita e soprattutto al contributo che vogliamo dare alla nostra società. E’ uno sforzo, un impegno, un gesto di umiltà che vale assolutamente la pena di fare, non solo e non tanto per noi, ma anche e soprattutto per le nuove generazioni, a cui, dopo aver lasciato un paese tendenzialmente in depressione, abbiamo il dovere di lasciare un testimone che contenga quanto meno la memoria genetica della felicità.

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come Formazione

La centralità del capitale intellettuale è da molti anni riconosciuta dall’Unione Europea come asset strategico dell’impresa che opera nel mercato globale.  L’Unione si riferisce chiaramente alla necessità imprescindibile di dare attuazione effettiva alla libertà di circolazione della conoscenza e rafforzare la ricerca, l’innovazione e l’istruzione per favorire la crescita economica e lo sviluppo dell’occupazione. Al capitale intellettuale viene attribuita in tutti gli Stati membri una valenza strategica nell’intero sistema economico e in quello delle imprese.  

Questo avviene grazie alla gestione e valorizzazione di una ricchezza, tanto intangibile quanto concreta, che incide oggi in misura rilevante sul raggiungimento degli obiettivi di un’impresa, sulla sua distintività e sulla sua longevità: la gestione e la condivisione della conoscenza. Un’impresa che non sviluppa costantemente conoscenza, e quindi in primis formazione, si chiude in se stessa e non crea le basi per lo sviluppo futuro. La leva formazione viene utilizzata nell’ambito tecnico (il cosa); ad esempio, per l’utilizzo di strumenti informatici o di un nuovo processo, di nuova procedura, o per l’applicazione di una nuova legge, per il miglioramento di una lingua straniera o per le tecniche di bilancio, per la formazione obbligatoria sulla sicurezza o l’antiriciclaggio, per conoscere e utilizzare un nuovo prodotto lanciato sul mercato, per sviluppare le competenze digitali, ecc.

Contemporaneamente, si fa ricorso alla formazione manageriale (il come) su skill cognitive, emotive, organizzative, relazionali o commerciali. Alcuni esempi sono il project managment, la negoziazione, la gestione del tempo, la comunicazione, la gestione per obiettivi, il problem solving, la leadership, la gestione del team, la gestione dei feed back e della performance, la gestione della relazione con il cliente e l’efficacia commerciale, ecc. La formazione si concentra tanto più sui comportamenti quanto più il bisogno dell’azienda si orienta verso le cosiddette “soft skill”, tanto apparentemente intangibili quanto in grado di toccare l’anima dell’organizzazione. Ad esempio, una formazione sui valori dell’azienda, su come le persone impattano sul cambiamento, su come poterle ingaggiare e motivare, come migliorare fattori sociali quali la cultura, il clima, la collaborazione, lo stress individuale e organizzativo, il “sentiment” delle persone, su aspetti comportamentali nel passaggio generazionale tra imprenditori o manager, sull’integrazione fra diverse generazioni, ecc.

La gamma delle opzioni non è certo completa, poiché la formazione ha uno spettro estremamente ampio. Una ricchezza enorme a disposizione delle persone. Se prima era necessaria, oggi, con i cambiamenti e la complessità con cui conviviamo, la formazione è indispensabile, ed evolve fortemente in relazione agli scenari che si modificano. La sua evoluzione più significativa è lo spostamento dall’insegnamento (qualcuno insegna e qualcun altro apprende) all’apprendimento (chi ha bisogni di apprendimento è l’elemento centrale, sul quale si costruisce l’architettura e i cosiddetti “learning objects”, cioè le unità e le risorse di apprendimento, i temi e le modalità).  Altri punti emergono:

  • il progressivo bisogno della persona di una maggiore autodeterminazione, in virtù dell’aumento dell’incertezza in cui vive, che la spinge a pensare e progettare in maniera più autonoma il proprio percorso professionale e dunque di apprendimento. Il sempre più scarso interesse verso chi “insegna” ne è la prova.

  •  la ricerca da parte della persona di comunità di riferimento, con fortissime istanze di confronto e scambio su come ciascuno affronta problemi e genera risultati, che trova negli ambienti 2.0, nelle connessioni in rete un ambiente funzionale; su internet si chiedono consigli e certamente qualcuno li dà, si cercano comunità di pratica e le si trovano. Su internet la persona gode ormai di una libertà infinitamente superiore a quella che sperimenta nel tradizionale luogo di lavoro.

  • a necessità di un apprendimento fortemente legato alla concretezza dei progetti, che richiede un approccio all’apprendimento che possa integrare le skill del pensiero analitico con quelle creative, progettuali e di sperimentazione;

  • la tendenza a ricercare ambienti e modalità di apprendimento più informali, originali e gradevoli, dove la persona possa approvvigionarsi rapidamente e piacevolmente della conoscenza di cui necessita. La pesantezza della nostra società e l’abuso di formazione basata sul noioso, vetusto insegnamento ha generato il bisogno di divertirsi, di cogliere stimoli nuovi con formule brevi. Il gaming e le nuove metodologie collaborative coaching style fanno progressi. 

Vanno poi tenute in considerazione le abitudini di fruizione delle informazioni.  Con le tecnologie che abbiamo a disposizione, l’apprendimento può oggi avvenire in qualsiasi luogo e in qualsiasi tempo, traendo vantaggio da un numero enorme di persone che, un tempo, non avrebbero potuto essere raggiunte.  L’apprendimento si sposta dal concetto della persona “convocata” a un evento formativo, alla persona protagonista del proprio percorso di apprendimento, che può proporre le tematiche di suo interesse, e se l’azienda non le consente di approfondirle, le cerca nella rete. Si afferma sempre di più la dimensione orizzontale della formazione: non più solo top down, calata dall’alto, magari alternata con approcci anche bottom up, che partono cioè dalle persone, ma anche da comunicazioni fra pari che si confrontano, ad esempio, su temi affrontati nel percorso formativo e che restituiscono all’azienda una nuova lettura degli argomenti trattati. 

Tutto questo comporta per la persona maggiore libertà ma anche maggiore responsabilità: in un contesto attivante, se la persona non si attiva sarà responsabile del suo non-apprendimento. A questo si aggiunge che lo sviluppo della cultura e delle competenze relazionali in ambito digital e social è un tema chiave soprattutto per i non-nativi digitali, e l’ambiente social creato in azienda (diversi sono gli esempi già realizzati in questo senso) solleciterà fortemente le persone in termini di iniziativa, visibilità, condivisione e collaborazione.

L’esperienza dimostra che uscire dai modelli di sempre e favorire una maggiore partecipazione fra le persone costituisce una sfida che diverse aziende fanno fatica a cogliere: l’arcaico bisogno di controllo non si attenua, e lasciare libere le persone genera ansia, diffidenza e scetticismo. E intanto aumentano gli interventi di formazione individuale. 

 

Al primo posto il Coaching, che si integra perfettamente con la formazione supportando il passaggio dalla comunità di apprendimento alla persona e al team.  In ascesa anche il Mentoring e il Reverse Mentoring, funzionali a gestire e integrare le diverse generazioni presenti in azienda, a non disperdere ma condividere la conoscenza.  Richiesto anche il Bilancio di Competenze, finalizzato a sostenere la persona nel “fare il punto” del proprio percorso di carriera in termini, sia di sviluppo, sia di riqualificazione o ricollocazione. 

Sia pur a fronte di investimenti crescenti nell’apprendimento a distanza, l’attività formativa in presenza mantiene ancora un ruolo preponderante.  La formula più apprezzata è quella del workshop: un laboratorio totalmente centrato sulla realtà concreta dei partecipanti, protagonisti e sperimentatori attivi dell’evento, supportati da un facilitatore (non più docente) esperto, che cura la “regia” della giornata. La massiccia somministrazione di slides è ormai finalmente messa all’angolo. 

Specchio della complessità, l’apprendimento si arricchisce con un’ampia gamma di approcci, tecniche e strumenti sempre più ricchi, con format partecipativi che favoriscono il coinvolgimento, la creatività, lo scambio e la collaborazione fra le persone, lo sviluppo di una cultura conversazionale e social. Sono premesse indispensabili per affrontare il passaggio successivo e imminente: la Digital Transformation, per la quale le imprese stanno cominciando ad attrezzarsi. Intanto, nelle aule di apprendimento sono entrate le app per fare sondaggi analizzabili e condivisibili in tempo reale, il community management on line, e non solo…

Perché l’Italia non continui a rappresentare il fanalino di coda nell’utilizzo della formazione in Europa - come purtroppo accade da molti anni - e superi il suo gap culturale, bisogna che si comprenda che non si tratta di un costo, ma di un investimento, e dev’essere un investimento di qualità alta.  A questo proposito, quante aziende sanno dell’esistenza dei Fondi Interprofessionali destinati alla formazione?  Si tratta di uno strumento, creato dalla Legge n. 388/2000, che consente alle aziende di fare formazione professionale continua ai dipendenti: un’azienda può scegliere di destinare una quota pari allo 0,30% dei contributi previdenziali che versa all’INPS per finanziarie iniziative pubbliche di formazione e aggiornamento dei lavoratori a cui poi far accedere i propri dipendenti.  Laddove l’azienda è di piccolissime dimensioni, si può unire ad altre piccole aziende, fare massa critica, presentare un progetto comune e ottenere fondi per finanziare progetti formativi. Ogni anno, quasi 1.000 imprese e circa 10 milioni di lavoratori beneficiano degli oltre 30.000 piani formativi approvati dai Fondi. Ma si può fare e ottenere molto di più.

Poiché il futuro è già entrato potentemente nelle nostre vite, occorre che ci si attivi senza indecisioni per individuare quella formazione specifica, concreta, in linea con gli obiettivi di cambiamento e di sviluppo, utile, efficace, stimolante e bella che possa aiutare le persone e le organizzazioni a fare la differenza nell’affrontare le sfide che il futuro ci ha già ampiamente mostrato.

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